La discriminazione è considerare qualcuno o una “categoria” di esseri viventi fuori da un perimetro di “uguali”
Segna un confine tra chi è uguale e chi non lo è, determinando di fatto una supremazia dell’insieme degli uguali.
Questa supremazia crea lo strumento più culturalmente violento che le società sono in grado di esprimere: lo stigma.
Lo stigma accompagnato al fenomeno del “branco” crea conflitto, violenza. Gli individui del “branco” tendono a rifugiarsi nel fenomeno delle echo chambers, ovvero ambienti nei quali trovano conferma del loro pensiero, trovano rassicurazione, questo meccanismo è, ad esempio, alla base della determinazione delle sette.
Esiste un “dentro” e un “fuori”, un perimetro in cui si riconosce rispetto agli individui che ne fanno parte e al di fuori del quale il rispetto non è più un atto dovuto.
La discriminazione è la piaga delle nostre società, si scatena verso le donne, etnie, gruppi religiosi o sociali, disabilità, trans, omosessuali, gli animali, gli elementi che compongono il nostro pianeta.
Qualunque essere vivente vuole vivere, qualunque elemento del pianeta oppone resistenza ad un cambiamento forzato: ad esempio una montagna oppone una enorme resistenza ad essere bucata, l’uomo è costretto a costruire macchinari complessi e costosi in grado di avanzare solo qualche centimetro al giorno per creare gallerie.
La negazione di un diritto, aspetto discriminante verso gli elementi a cui si sta negando il diritto stesso, non è mai isolato, ma è solo l’inizio di una catena.
Ad esempio la negazione del diritto alla libera circolazione delle persone, e lo stiamo vedendo in particolare ai confini della nostra “civilissima” Europa, ne crea immancabilmente altri.
Le persone migrano lasciando il conosciuto per l’ignoto a causa problemi legati alle condizioni economiche: negazione del diritto al lavoro; per motivi di salute: negazione del diritto alla salute; per motivi di studio: negazione del diritto allo studio; per motivi legati a guerre o persecuzioni: negazione del diritto alla sopravvivenza.
Gli allevamenti intesivi, effetto dell’eugenetica, veri e propri lager di sofferenza, sono tra le maggiori cause di produzione di CO2 e incubatori di malattie come ad esempio molti studi sulla Sars-Cov-2 stanno dimostrando e questa violentissima negazione del diritto alla vita degli animali, trattati come schiavi, causa un’altra negazione: il diritto alla salute.
Ove la negazione del diritto sia istituzionalizzata, le Istituzioni creano delle barriere alla libertà di stampa, ai giornalisti viene impedito di documentare: questo non è un problema di testate, quelle vanno e vengono come i giornalisti: è una negazione del diritto all’informazione dei cittadini.
La discriminazione crea meccanismi antidemocratici, conflitti, violenze.
Ecco perché è importante l’intersezionalità: parola “difficile” coniata per la prima volta nel 1989 da Kimberlé Crenshaw: in estrema sintesi solo laddove si rispetti ogni diritto s’interrompe la “pandemia” delle negazioni dei diritti che immancabilmente finiscono con l’essere espletate con azioni forzate, violente.
Impossibile parlare di pace e disarmo senza avere ben presente il concetto di intersezionalità.
Impossibile parlare di nondiscriminazione e intersezionalità senza superare il concetto di “diversità”: non c’è nulla di prezioso nella diversità, la diversità segna il confine tra chi è uguale e chi è diverso, serve uguaglianza, di diritti, di opportunità.
Non c’è nessuna attinenza tra diversità e il rispetto di culture altre.
La lotta in assoluto più intersezionale è la lotta ambientalista.
Ovviamente ogni attivista lotta in base alla propria maggior sensibilità rispetto ad un problema, ma è importante farlo cercando di approfondire il concetto di intersezionalità, o se preferiamo di “bene comune”, senza aver ben presente la “complessità” c’è il concreto rischio di cercare di risolvere un problema contribuendo a livello personale a crearne altri.
Mentre la discriminazione delle destre è lineare, riconoscibile, palese, la discriminazione delle sinistre è subdola, supponente, ammantata di ipocrisia, ma anche negli ambienti delle sinistre esiste la logica del “branco”, la “fistolizzazione” (espulsione, n.d.r.) di chi è “diverso”, è semplicemente più sfumata, meno individuabile, oppure violenta come negli ambienti delle “autonomie”.
Per non discriminare occorre varcare il confine, entrare nel non conosciuto, “vestire i panni” di coloro che sono, e immancabilmente si sentono, discriminati.
Occorre cambiare linguaggio, smettere di usare parole per le quali le persone percepiscono di essere stigmatizzate come ricchione, zingaro, negro, clochard, storpio, ecc… per citare degli esempi.
Noi pensiamo “parlando”: un italiano pensa in italiano ecc… , pensiero e linguaggio sono strettamente correlati, un linguaggio discriminante crea un pensiero discriminate e viceversa.
Occorre non cadere nella trappola dialettica dell’affermazione “io tratto tutti nello stesso modo, se trattassi un negro, ricchione, zingaro, musulmano, clochard, ecc…, diversamente allora sì che sarei discriminante”: questo discorso non funziona, perché non varca il confine, è all’interno del perimetro di coloro che siedono con le terga al caldo della loro condizione di “più uguali”, sguazzando nei loro privilegi, ben lontani dal volerci rinunciare per condividerli.