Con una serie di bombardamenti negli ultimi giorni, di cui è stata diffusa notizia a mezzo stampa, gli Stati Uniti tornano ad aggredire la Siria, colpendo direttamente milizie filo-iraniane alleate del governo siriano nelle operazioni militari che continuano ad interessare il Paese. Da quanto si apprende, ad essere colpite sarebbero state le milizie di Kait’ib Hezbollah e Kait’ib Sayyid al Shuhad, e gli attacchi statunitensi sarebbero avvenuti nella Siria orientale, al confine con l’Iraq, una regione, tra l’altro, strategica, sia dal punto di vista delle risorse energetiche, perché legata al controllo delle vie di rifornimento e di distribuzione del petrolio, sia dal punto di vista del controllo territoriale, dal momento che vi continuano ad operare le milizie oscurantiste dello Stato Islamico (ISIS) e che ancora sono, in parte, sottratte al controllo effettivo delle autorità siriane. Il rischio di una escalation, lo spettro di una precipitazione incontrollata dell’aggressione, torna dunque ad affacciarsi: da quanto si apprende dagli organi di informazione, infatti, la portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, ha riferito che il presidente USA, Joe Biden, «difenderà sempre gli americani di fronte a ogni possibile minaccia». Il rischio che i raid militari e la rinnovata tensione nella regione possano ulteriormente rafforzare la guerra e allontanare la pace, rendendo sempre più precaria l’ipotesi di una soluzione politica, torna dunque alto.
La motivazione addotta dagli Stati Uniti sarebbe stata quella di dare un’immediata risposta ai recenti attacchi contro le forze statunitensi in Iraq, attacchi iniziati il 15 febbraio, e proseguiti sino ai giorni scorsi, pure questi attribuiti a milizie filo-iraniane. Le ragioni effettive dell’aggressione paiono invece essere ben altre e non nascondono i reali interessi della Casa Bianca e del Pentagono: ricuperare un ruolo strategico di primo piano degli Stati Uniti nell’area; piegare gli ulteriori sviluppi del conflitto in Siria in una direzione più favorevole, dal punto di vista strategico, agli Stati Uniti e al loro principale alleato nella regione, lo Stato di Israele; dare un segnale alla Russia, che, con il proprio sistema di alleanze, con la Turchia, da un lato, e con l’Iran, dall’altro, sempre più si è affermata, negli ultimi anni, come protagonista nel conflitto in Siria e, in generale, nella regione mediorientale; condizionare, infine, il tavolo diplomatico sul nucleare iraniano. Non a caso, a dispetto di quanto a gran voce richiesto dalle organizzazioni pacifiste e antimilitariste, gli Stati Uniti hanno confermato di non avere, allo stato, intenzione alcuna di rivedere le dure e assai ampie sanzioni imposte all’Iran.
È possibile osservare un «cambio di passo» della nuova amministrazione statunitense a guida “democratica”, con tutti gli elementi di «continuità e superamento» che sembrano caratterizzarla: se la strategia di Trump puntava sugli aspetti della guerra economica e della guerra commerciale, peraltro con una singolare aggressività “diplomatica”, come ha ampiamente mostrato la strategia dei cosiddetti Accordi di Abramo a vantaggio esclusivo dello Stato di Israele e in violazione dei diritti di autodeterminazione dei popoli, a partire dai popoli della Palestina e del W. Sahara; la strategia di Biden potrebbe accelerare anche sul versante della guerra aperta, in nome di quel «multilateralismo assertivo» che non rinuncia al «primato americano», da confermare anche con aggressioni e interventi militari diretti, in piena continuità con i suoi predecessori “democratici”, Barack Obama, con l’aggressione alla Libia e alla Siria, e, più indietro nel tempo, Bill Clinton, con la scandalosa campagna di aggressione alla Jugoslavia. Ieri con Trump e, diversamente, oggi con Biden, non si riduce la minaccia per la pace e la sicurezza internazionale rappresentata dall’imperialismo USA.
Altro dovrebbe essere lo sforzo che, a maggior ragione nel momento drammatico della crisi e della pandemia del tempo presente, dovrebbe accompagnare gli attori internazionali: uno sforzo di pace con giustizia sociale e per un multipolarismo rispettoso dei diritti dei popoli; a fianco di chi lotta per la pace, la democrazia e la giustizia, nel Medio Oriente e nell’intero bacino del Mediterraneo; dalla parte dei diritti dei popoli e della solidarietà internazionale. Non smettiamo di volgere lo sguardo alla Siria, a dieci anni, ormai, dall’inizio del conflitto, per la fine immediata delle interferenze, delle ingerenze e delle aggressioni e per la immediata cessazione delle forniture di armi che alimentano sempre più la guerra nel Paese; per l’assistenza ai profughi e agli sfollati, concordando l’apertura di canali legittimi di soccorso e di assistenza alle vittime del conflitto; per un cessate-il-fuoco definitivo; per la fine dell’embargo e delle sanzioni economiche che affamano il popolo siriano; per l’avvio di un percorso per una soluzione politica del conflitto in linea con i principi di integrità territoriale e di libera autodeterminazione del popolo siriano in tutte le sue espressioni e articolazioni etniche e culturali, nel rispetto dell’autodeterminazione e di tutti i diritti per tutti e per tutte.