Salario minimo, ferie pagate, diritto a fondare un sindacato: dopo una battaglia legale durata sei anni, il 19 febbraio la Corte suprema del Regno Unito ha respinto un ricorso della società Uber stabilendo che i suoi conducenti sono lavoratori dipendenti, e non liberi professionisti, e possono quindi rivendicare i loro diritti.
La sentenza ha riconosciuto che “il servizio di trasporto svolto dagli autisti e offerto ai passeggeri tramite l’app della compagnia è strettamente definito e controllato da Uber”. La corte ha inoltre stabilito che i conducenti vanno considerati come dipendenti della compagnia dal momento in cui accendono l’app, e non solo quando hanno passeggeri a bordo.
Questa sentenza si inserisce in un crescente movimento internazionale a difesa dei diritti dei lavoratori della gig economy, che contesta la loro equiparazione a lavoratori autonomi.
Lo scorso anno, a giugno il governo spagnolo ha annunciato di aver avviato la procedura per ratificare una legge che corregga la classificazione dei lavoratori nelle piattaforme digitali, anche a seguito di diverse contestazioni sul fronte legale.
Ad agosto, poi, una corte d’appello della California ha confermato una sentenza che ordinava a Uber e Lyft di assumere i propri conducenti come dipendenti. Tre mesi dopo tuttavia gli elettori californiani si sono espressi a favore della Proposition 22, esentando di fatto le compagnie digitali dalla nuova legge che estendeva l’obbligo di assunzione come dipendenti per i lavoratori della gig economy.
Altri contenziosi strategici sono stati avviati in diversi paesi tra cui Brasile, Francia, Italia, Paesi Bassi e negli stati di New York e Pennsylvania.