Venne salutata dagli ambientalisti “istituzionali” (Legambiente, Greenpeace, WWF) come un grande passo in avanti. Venne lanciato ad un certo punto anche una petizione per accelerarne i tempi di approvazione del DDL 1345 sui delitti ambientali. Era il Governo Renzi e ministro dell’ambiente era Gian Luca Galletti, che si stava spendendo per la sua approvazione. Ma i problemi erano già evidenti a chi sapeva leggere bene. Come il magistrato Felice Casson, o Gianfranco Amendola, il pretore verde, avevano evidenziato sin dal giorno della sua presentazione da parte di Ermete Realacci. Ma era soprattutto Confindustria che premeva che fosse approvata così com’era: piuttosto curioso da parte di coloro che erano parte in causa nei processi di Porto Tolle a Rovigo, Tirreno Power a Vado ligure, e Ilva di Taranto.
Il reato di disastro ambientale entra nella nostra legislazione il 22 Maggio 2015 e finora nessuno dei grandi processi è giunto a conclusione escluso quello di Porto Tolle con l’assoluzione di Paolo Scaroni e Franco Tatò, come ex amministratori delegati di Enel dal reato di pericolo di disastro ambientale per le emissioni della centrale ad olio. Il 1 febbraio è iniziata la requisitoria della pubblica accusa per “disastro ambientale” causato dall’ILVA della famiglia Riva nell’ambito del processo “Ambiente svenduto”. 44 sono gli imputati, tra cui oltre ai fratelli Riva proprietari del siderurgico, Nicki Vendola e Nicola Fratoianni, insieme a dirigenti dell’Ilva e dell’Arpa Puglia, l’ex sindaco di Taranto Stefano Ippazio e l’ex presidente della Provincia Giovanni Florido. Mille parti civili, molte associazioni dei familiari delle vittime e degli operai.
Il delitto di disastro ambientale recita così: art.452-quater c.p.
Fuori dei casi previsti dall’art.434 – crollo di costruzioni e altri disastri dolosi – chiunque abusivamente cagiona un disastro ambientale è punito con la reclusione da 5 a 15 anni.
Costituiscono disastro ambientale alternativamente:
1 – l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema
2 – l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionalità
3 – l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo.
Quando il disastro è prodotto in un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette, la pena è aumentata.
I problemi evidenti di questa legge sono appunto la definizione di disastro ambientale come “danno” e non come “pericolo”. Sappiamo che come nel caso dell’Ilva non si tratta di un evento singolo come la fuoriuscita di greggio da una petroliera, ma emissioni che si perpetuano nel tempo e le cui conseguenze appaiono evidenti dopo anni. Quindi la definizione di danno per i grandi impianti sarà difficile da dimostrare.
Altro grande problema è il termine “abusivamente”. Come se fosse lecito provocare danni all’ambiente se siamo autorizzati, come in effetti è successo con gli accordi con Arcelor Mittal. In Italia i disastri ambientali avvengono a norma di legge. Ilva ha emesso diossina sotto i 10000 nanogrammi a metro cubo, quindi era nella norma, anche se il limite è un assurdo scientifico. I pascoli che ha contaminato capre e pecore intorno all’acciaieria sono a norma di legge anche se hanno assorbito 10ng/kg nel 2015 (quest’anno è stato fissato a 6 ng/kg per cui lo stato non è costretto a bonificare i terreni dal momento che è stato riscontrato un valore inferiore. Eppure la diossina è un veleno potentissimo e anche poche parti possono produrre gravi danni alla salute). Quindi il reato può essere contestato solo se vengono violate leggi, disposizioni amministrative, prescrizioni regolamentari e non come un danno ad un bene pubblico tutelato dalla Costituzione, indipendentemente dalla violazione di norme che sono sempre farraginose e confuse.
Terza grande lacuna, su cui i difensori dell’ILVA si sono battuti, è il danno irreversibile. Occorreva dimostrare che sono stati fatti tentativi di bonifica che non hanno prodotto risultati. Nessuna bonifica del quartiere Tamburi è mai stata fatta. Non ci sono quindi elementi certi per dimostrare che le operazioni sono state inutili, perché semplicemente non ci sono state.
La requisitoria del PM al processo ILVA è stata molto dettagliata e ha lasciato senza fiato tutti gli spettatori, per i particolari, per la gravità dei fatti, delle omissioni e le inadempienze messe in campo per il profitto. Il pm Mariano Buccoliero ha inoltre evidenziato la enorme differenza tra le perizie ordinate dal GIP rispetto ai consulenti “di parte” incaricati dalla difesa. IL pm si è soffermato sulle polveri e dei mezzi inadeguati per abbatterle, due autobotti e una macchina per spruzzare. Ha raccontato la scuola Deledda, nel quartiere Tamburi, descritta come “la scuola della morte”, intasata dalle polveri. Alla fine ha chiesto “ Gli imputati erano all’oscuro di questa situazione quando c’era una evidenza empirica?” (quindi una domanda rivolta non solo ai dirigenti, ma anche ai politici coinvolti).
Il processo andrà avanti nei prossimi mesi, ma la domanda che ci poniamo è sempre quella: riuscirà la giustizia ambientale a superare le gravi lacune di questa legge e dare una definitiva chiusura alla stagione dell’ambiente e la salute come merce a buon mercato? Starà anche a noi seguire con attenzione le vicende giudiziarie per capire se la maggiore sensibilità ambientale che osserviamo negli ultimi anni porterà ad un ribaltamento delle premesse. Staremo a vedere.
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