Fermato il 7 febbraio 2020 all’aeroporto del Cairo, appena atterrato da un volo proveniente da Bologna – la città dove risiedeva da mesi per frequentare il Master in studi di genere dell’Università Alma mater studiorium – e sottoposto per lunghe ore a sparizione forzata, interrogatori e torture, dal giorno successivo per Patrick è iniziato un calvario.
In 12 mesi, tra udienze rinviate e udienze svolte, la magistratura egiziana ha preso in esame il fascicolo di Patrick oltre 20 volte, sempre con lo stesso esito: il carcere preventivo, non solo senza processo ma senza alcuna significativa possibilità, per i suoi avvocati, di difenderlo dalle accuse infondate mosse nei suoi confronti.
Per quelle accuse – minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento a manifestazione illegale, sovversione, diffusione di notizie false e propaganda per il terrorismo – che raggiungono con uno scientifico “copia e incolla” tutti coloro che esprimono critiche e dissenso e svolgono attività considerate pericolose dalle autorità egiziane, come ad esempio l’avvocatura, il giornalismo e la difesa dei diritti umani, Patrick rischia persino 25 anni di carcere.
Il disegno della magistratura del Cairo è chiaro: tenere in carcere Patrick per altri 12 mesi, arrivando fino al termine del periodo che la legislazione egiziana autorizza per la detenzione senza processo.
Uno scenario del genere è impensabile. Ogni giorno che passa, la salute fisica e mentale di Patrick è in pericolo.
Lo studente bolognese non avrebbe mai dovuto mettere piede in una prigione: perché è innocente e perché, essendo asmatico, è a rischio di contrarre il coronavirus.
La chiave della cella dove Patrick langue da 12 mesi è nelle mani delle autorità dello Stato in cui è detenuto. Ma è anche nelle mani del governo dell’Italia, di un paese che con una enorme mobilitazione lo ha adottato e ha riconosciuto che la sua storia, la sua vita e il suo destino appartengono anche a noi. E anche da noi dipendono.