Eccolo il bivio da molti atteso: ricominciare a inseguire lo sviluppo oppure abbandonare completamente quel sentiero che ha nella ricerca del massimo profitto, nella finanza globalizzata, nella competizione e nel consumismo i suoi pilastri, anche nella sua versione “sostenibile”. C’è da lasciar spazio “a un mondo nuovo… – scrive Lorenzo Guadagnucci – lotta dopo lotta, senza preoccuparsi troppo delle definizioni altrui: radicali, ideologici, estremisti, irrealistici, passatisti, tutti termini adoperati per screditare e azzoppare chi avrebbe l’ardire di agire nell’intento di cambiare l’ordine delle cose. Non è il caso di scoraggiarsi…”
Durante un dibattito radiofonico sul nascente governo Draghi e la sua reclamizzata “svolta ecologista”, il conduttore si è compiaciuto della convergenza di posizioni fra un alto esponente di Confindustria, titolare di un’azienda del ramo automobilistico, e il rappresentante di un’associazione ambientalista, reduce dalle formali consultazioni con il presidente del consiglio incaricato. “L’industriale e l’ambientalista dicono le stesse cose”, ha detto con un certo giubilo il conduttore, mentre bollava di “radicalismo che impedisce di fare le cose” quanto detto da Greta Thunberg al recente Forum economico di Davos, pensatoio dei potenti del nostro tempo.
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Di che hanno parlato l’industriale e l’ambientalista? Qual è stato il punto di convergenza? Non è difficile immaginarlo: il concetto di “sviluppo sostenibile”, ormai in uso dappertutto, dai quotidiani del mattino ai talk show della sera, dalle piazze finanziarie ai commenti degli “esperti” chiamati a giudicare le prime mosse politiche del banchiere divenuto leader politico. L’industriale ha parlato di sviluppo sostenibile come sinonimo di crescita (“senza la quale non andiamo da nessuna parte”, ha detto) e ha replicato a chi ipotizzava la necessità di una migliore distribuzione della ricchezza con un’osservazione ripetuta fino alla noia da quasi tutti gli economisti e gli imprenditori negli ultimi trenta o quarant’anni: “Prima la ricchezza va prodotta”. L’ambientalista non ha obiettato alcunché, ma si è soffermato sulla necessità di agire presto affinché l’Italia e le sue imprese non perdano la sfida internazionale con le aziende e i progetti già in corso.
Alcune domande retoriche
Dobbiamo davvero compiacerci per tanto entusiasmo e tale convergenza? O è lecito avanzare delle perplessità? Proviamo a ragionare.
Intanto, il concetto di sviluppo sostenibile. Il dubbio è che si tratti di un ossimoro. L’idea di sviluppo che ereditiamo dal passato è quella che ha generato il disastro che ci circonda: un pianeta esausto e già al collasso; una pandemia originata da un eccesso di produzioni e disboscamenti; l’orizzonte dell’estinzione di specie. È davvero sufficiente mettere un aggettivo accanto al sostantivo per abbandonare il sovraconsumo di risorse non rinnovabili, arrestare l’innalzamento della temperatura terrestre, combattere l’inquinamento, bloccare la deforestazione e prevenire nuove pandemie e via elencando? In altre parole (e altre domande): qual è la prospettiva dello “sviluppo sostenibile” nel post pandemia, ammesso che ci sia davvero un post pandemia? Comprende o no, per esempio, la piena ripresa degli spostamenti aerei? E il consumismo, così radicato nel mondo detto non a caso “sviluppato”, ne fa ancora parte? Le auto “ecologiche” potranno essere prodotte e vendute in numero illimitato? E gli allevamenti intensivi di animali da latte e da cerne saranno anch’essi “sostenibili”? Sono solo alcune domande retoriche fra le tante possibili ma servono a suggerire un dubbio, cioè che la svolta da compiere non sia verso un mitico “sviluppo sostenibile”, nel quale la crescita dei consumi resta l’obiettivo di fondo ma sarebbe magicamente compensata da un altro sviluppo, quello tecnologico.
È più probabile che siamo di fronte a un bivio diverso: da una parte lo sviluppismo divenuto sostenibile, il “green new deal” e altre locuzioni care al mondo della tecnocrazia e dell’industria, rigidamente ancorate all’ideologia del libero commercio; dall’altra parte un’idea di mondo che mette al centro i beni comuni e la solidarietà fra persone e popoli e comincia a fare i conti con il senso del limite e ragiona quindi, per esempio, di sovranità alimentare, giustizia sociale, redistribuzione del lavoro, riduzione dei consumi superflui.
Troppo radicale? Irrealizzabile? Certamente sì, se pretendiamo di rimanere all’interno delle coordinate ideologiche dominanti, forse no se riusciamo a liberarci da questi opprimenti e oppressivi vincoli mentali e lessicali.
La vita oltre il profitto
La pandemia ci ha fatto capire quanto sia grave lo stato di salute del pianeta e ci ha fatto compiere esperienze esistenziali impreviste; ci siamo misurati con le nostre fragilità e abbiamo compreso che il futuro nostro e delle prossime generazioni si è improvvisamente ristretto.
Sia chiaro, non c’è da disprezzare l’avvento dello “sviluppo sostenibile” né l’impegno attorno alla ricerca di nuove tecnologie più o meno salvifiche, ma dovrebbe essere chiaro che siamo in realtà alle prese con una sfida e una lotta politica nuova. C’è vita oltre lo sviluppo ed è probabile che la reale linea di demarcazione – il motivo di lotta e di conflitto di oggi e del prossimo futuro – riguardi proprio l’abbandono del modello sviluppista, che ha nella concorrenza, nella ricerca del massimo profitto, nella finanza globalizzata, nel cittadino consumista, nel primato dell’umanità sulla natura le sue premesse logiche e i suoi pilastri, anche nella sua versione “sostenibile”.
Limite, cura, condivisione, sobrietà, giustizia sociale, beni comuni, diritti di base garantiti a tutti sono alcune possibili parole d’ordine di un mondo nuovo che andrebbe costruito, passo dopo passo, lotta dopo lotta, senza preoccuparsi troppo delle definizioni altrui: radicali, ideologici, estremisti, irrealistici, passatisti, tutti termini adoperati per screditare e azzoppare chi avrebbe l’ardire di agire nell’intento di cambiare l’ordine delle cose. Non è il caso di scoraggiarsi.