“La situazione potrebbe aggravarsi nelle regioni dove ci sono minoranze etniche e conflitti armati, in particolare qui, nel Rakhine, dove le comunità Rohingya sono state già gravemente vessate”. A parlare con l’agenzia Dire è Manfredi Miceli, cooperante italiano a Sittwe, capitale di questo Stato del Myanmar al confine con il Bangladesh.
L’intervista comincia con un riferimento a lunedì scorso, il giorno del golpe dei militari e dell’arresto di Aung San Suu Kyi, la consigliera di Stato già Premio Nobel per la pace.
“Mi sono svegliato, non andava internet e sono uscito in strada. Pensavo fosse solo un mio problema” ricorda Miceli, 28 anni, origini siciliane. “Poi un collega, passato a prendermi per accompagnarmi al lavoro, mi ha detto che c’era un golpe in corso”. Il cooperante é responsabile per l’ong Center for Social Integrity delle operazioni nella parte centrale del Rakhine. In Myanmar, dice, l’aria è tesa anche per la possibile entrata in gioco delle minoranze etniche, circa 130 nel Paese, molte delle quali armate e in conflitto da decenni con i generali.
“Lo scenario sembra abbastanza stabile anche perché quanto successo non era del tutto inaspettato” riferisce Miceli. “Sin dalla settimana scorsa il generale Min Aung Hlaing aveva fatto paventare l’intervento, in un discorso in cui aveva reputato possibile cancellare l’attuale Costituzione. D’altra parte va ricordato che il partito di governo, guidato da Aung San Suu Kyi, aveva ottenuto l’83 per cento alle ultime elezioni. Intervenire sarebbe stato chiaramente in disaccordo con l’espressione popolare”.
A Sittwe nelle strade non ci sono mezzi militari, a differenza di quanto avviene in città come Yangon o nella capitale Naypyidaw. Ciò perché quello effettuato è stato “un golpe bianco”, dice il cooperante: “Sono stati arrestati oppositori politici ed esponenti del partito di governo ma non è stato sparato neanche un colpo, non ci sono stati morti o feriti”. Se in un primo momento la popolazione era spaventata, sottolinea Miceli, ora sono in corso “i primi passi di una mobilitazione di disobbedienza civile contro il golpe”.
Trainata dal comparto dei lavoratori della sanità, secondo Miceli, la mobilitazione “si sta allargando rapidamente a gran parte della società civile e andando avanti potrebbe mettere in difficoltà i militari, già allarmati dall’eventuale ingresso in scena dei gruppi armati delle minoranze etniche”. Il cooperante aggiunge: “Alcuni di questi gruppi avevano siglato un cessate il fuoco con i militari, ma in queste ore hanno ritrattato. Se decidessero di riaprire le ostilità, la tensione nel Paese aumenterebbe esponenzialmente”.
Ieri è stato comunicato che Suu Kyi e il presidente Wyn Myint resteranno in stato di arresto per almeno 14 giorni, accusati per ora di reati minori. “La voce che gira – annota Miceli- è che abbiano affrontato un processo per alto tradimento allo Stato, ma non è semplice sapere nel dettaglio cosa sia successo”. I militari per ora sono concentrati nelle zone più importanti del Paese, oltre che sul riportare un minimo di normalità nella vita civile. Suu Kyi ha chiesto alla popolazione di resistere pacificamente al golpe. “Per la gente le conseguenze saranno principalmente economiche” dice Miceli. “La Birmania si era aperta negli ultimi anni agli investimenti stranieri, soprattutto in ambito tecnologico”.
La crescita del Prodotto interno lordo era stata rilevante, ma ora potrebbero iniziare tempi difficili. Ed esiste ovviamente una questione geopolitica, con Pechino come attore principale. “La Cina, nonostante appoggiasse Aung San Suu Kyi, sembra aver deciso di avallare le operazioni della giunta militare” dice il cooperante: “Dalle decisioni di Pechino dipenderà molto di quello che succederà”.
Stando a questa ricostruzione, il Covid-19 non sembra essere una variabile decisiva. “La situazione sanitaria nel Paese è sotto controllo al momento” sottolinea Miceli, secondo il quale pero’ “data la mobilitazione partita tra i lavoratori della sanità non è detto che anche in questo senso non ci possano essere conseguenze”.
Sul tema delle minoranze etniche, Miceli cita anzitutto il caso del Rakhine, “dove già esiste un sistema in stile apartheid contro la popolazione Rohingya e la situazione potrebbe aggravarsi”. Da anni la popolazione lotta contro la repressione dell’esercito birmano e la Corte penale internazionale dell’Aia ha avviato un’inchiesta con l’ipotesi di crimini di genocidio.
“Uno dei maggiori responsabili di queste atrocità è proprio il generale asceso ora al potere” dice Miceli. Convinto che almeno nel Rakhine appaia difficilmente praticabile l’ipotesi di un’alleanza contro i militari tra la popolazione birmana filogovernativa e le milizie etniche. “Queste ultime negli scorsi anni sono state pesantemente vessate anche dal governo di Suu Kyi” la tesi del cooperante: “Quindi perché dovrebbero difenderlo ora?”