Domenica prossima, 14 febbraio, si terranno le elezioni anticipate in Kosovo. La regione è nel pieno dell’ennesima vigilia elettorale, dal momento che si tratta della sesta elezione nel giro di pochi anni: il che significa, al tempo stesso, che la regione è ancora una volta alle prese con una dura campagna elettorale e che nessuna delle ultime legislature è giunta alla sua scadenza naturale. Le circostanze che hanno determinato la fine anticipata di quest’ultima e quindi l’indizione delle elezioni anticipate sono note: il 21 dicembre 2020, la Corte Costituzionale ha stabilito che il governo guidato dalla Lega Democratica del Kosovo (LDK) di Avdullah Hoti era illegittimo perché la sua maggioranza parlamentare era tale in quanto comprendeva un voto non valido, espresso da un deputato che aveva riportato una condanna penale negli ultimi tre anni. A propria volta, Hoti era diventato primo ministro dopo che Albin Kurti, leader di Vetëvendosje (Autodeterminazione), che aveva vinto le elezioni anticipate del 6 ottobre 2019, era stato estromesso anticipatamente dall’incarico di capo del governo.
Come in una sorta di coazione a ripetere, che pure dice molto sul carattere e sulla stabilità del quadro politico-istituzionale della regione, la possibilità di Albin Kurti di essere eletto è oggi analogamente compromessa: gli stessi presupposti di legge che avevano determinato la sentenza della Corte Costituzionale contro il governo di Avdullah Hoti, agiscono adesso contro il principale esponente dell’opposizione, vale a dire proprio Kurti, che è stato dichiarato non eleggibile in Parlamento perché anch’egli condannato, in questo caso per i disordini e gli scontri che avevano visto protagonista proprio il suo partito e che avevano portato al lancio di gas lacrimogeni all’interno dell’aula del Parlamento; sentenza, quest’ultima, diventata definitiva nell’ottobre del 2018.
Si ricorderanno i motivi di quella protesta: la contestata demarcazione del confine con il vicino Montenegro e l’avanzamento degli Accordi pattuiti a Bruxelles nell’ambito del dialogo tra Serbia e Kosovo, con la mediazione dell’Unione Europea, con specifico riferimento a quelli, fondamentali per fare avanzare il processo negoziale, mirati alla istituzione della Comunità dei Comuni Serbi del Kosovo. Entrambi, del resto, e soprattutto il secondo, permangono come nodi problematici della vita della regione. Nel marzo del 2018 il Parlamento kosovaro era riuscito finalmente, dopo lunghe controversie, ad approvare in via definitiva l’accordo, anch’esso peraltro sostenuto attivamente tanto dall’Unione Europea quanto dagli Stati Uniti, per la demarcazione dei confini tra il Kosovo e il Montenegro, sulla base dell’accordo che il Kosovo e il Montenegro avevano raggiunto nel 2015 a Vienna.
Un accordo sul quale, per mesi, si era esercitata la fortissima opposizione, nelle piazze e in aula, di Vetëvendosje, con la motivazione per la quale l’accordo, con la nuova demarcazione, avrebbe sottratto al Kosovo circa 8000 ettari del proprio territorio. D’altra parte, l’accordo di Vienna non riguarda solo questioni di confine: si tratta infatti di un accordo con l’obiettivo più generale di promuovere la risoluzione di controversie con mezzi pacifici.
Ben più noto il secondo dei due accordi: raggiunto il 25 agosto 2015, confermava uno dei punti cruciali degli Accordi di Bruxelles del 19 aprile 2013 tra Serbia e Kosovo, vale a dire la costituzione della Comunità dei Comuni Serbi (a maggioranza serba) del Kosovo, dotata di sostanziale autonomia nei campi dello sviluppo locale, della economia locale, delle infrastrutture di pertinenza locale, dell’istruzione e della sanità. Un accordo visto come fumo negli occhi da Vetëvendosje e in generale delle forze nazionaliste albanesi kosovare, che criticano la maggiore autonomia dei municipi serbi e paventano il rischio di creare una nuova “Republika Srpska” in territorio kosovaro.
È in ballo, in questa campagna elettorale, anche l’interpretazione della sentenza che ha dichiarato Albin Kurti non eleggibile in Parlamento: Vetëvendosje ha più volte ribadito che il divieto di diventare deputato non comporta l’impossibilità di diventare primo ministro. Ed in ogni caso, la sua campagna elettorale sta battendo palmo a palmo la regione, e, secondo i sondaggi, le probabilità che il suo possa risultare ancora il primo partito kosovaro sono estremamente alte. Il tutto sullo sfondo di una campagna che sembra lasciare in secondo piano i temi più scottanti dell’agenda politica e sociale (a partire dal contenimento della pandemia, dalla campagna vaccinale, dalla ripresa dalla crisi economica e sociale) e che invece si sta giocando tutta tra accuse incrociate e richiami ultranazionalisti. Due leader storici del PDK, l’ex presidente Hashim Thaçi e Kadri Veseli, sono oggi sotto accusa di fronte alla Corte Speciale dell’Aja per crimini di guerra risalenti agli anni della guerriglia separatistica dell’UÇK; Enver Hoxhaj, leader del PDK (il Partito Democratico del Kosovo), ha rivendicato, in una manifestazione elettorale a Skënderaj/Srbica, che «chi è con l’UÇK vota PDK»; Ramush Haradinaj, leader dell’AAK (l’Alleanza per il Futuro del Kosovo) e pure ex capo militare dell’UÇK, è tornato a ventilare la minaccia di un «referendum per l’unificazione con l’Albania», la minaccia di una Grande Albania. Tra promesse mirabolanti e minacce nazionalistiche, problemi e bisogni, desideri e speranze dei kosovari e delle kosovare restano i grandi assenti della campagna elettorale.