Due appuntamenti quasi in sequenza: alla mattina circa 200 persone si ritrovano sotto i palazzi della Regione Lombardia. E’ passato un anno, ricordano che il paziente zero è la Regione stessa, la sua giunta, un’amministrazione che ha sicuramente contribuito a far sì che il virus colpisse duramente proprio qui. Una delle regioni al mondo con le percentuali più alte di morti, una gestione che ha permesso che la produzione andasse avanti perché non bisognava disturbare il profitto. Quella che è arrivata in ritardo con le precauzioni necessarie, quella che non ha assunto velocemente nuovo personale negli ospedali e ha continuato a strizzare l’occhio al privato che tanto si era ingrassato nei decenni precedenti. Tanti striscioni, cartelli, voci: a raccontare la vergogna di chi si è rinserrato nel palazzo e certo non si fa vedere in giro temendo contestazioni. Un’amministrazione che voleva chiudere due ospedali, San Carlo e San Paolo, per farne uno “smart”. Più di 100.000 persone hanno firmato perché venisse commissariata. Oggi la rabbia era tanta, la rabbia di chi ha perso i suoi vecchi o li sente da un anno solo per telefono, reclusi in una residenza per anziani diventata casa di reclusione.
E poi il personale, quello che un anno fa si è trovato come un equipaggio in mezzo ad una tempesta. A correre, correre, fare orari assurdi, sostituire i colleghi ammalati, stare vicino a chi moriva. Reggere un urto emotivo pazzesco. Sorretto dall’ammirazione che arrivava, ma stanco ed esausto di fronte a chi non rinforzava i ranghi, a chi prendeva in giro con nuovi contratti che stringevano il cappio. E poi dall’alto il silenzio: non si critica, non si denuncia, non si parla con la stampa. “I panni sporchi si lavano in casa”, ma quei panni non erano sporchi, erano infetti. In un anno ci sono stati decine di presidi sotto quei nuovi palazzi, tutto vetro e acciaio. Apparentemente trasparenti, in realtà opachi. Transenne su transenne, fatte mettere da chi ha la coscienza a dir poco sporca.
Le parole del presidio sulla sanità risuonano ancora quando nel primo pomeriggio i lavoratori e le lavoratrici della cultura si raccolgono davanti alla Triennale. Età media più bassa rispetto alla mattina. Tanti volti e abiti colorati, creativi, molti coi bambini. Una Cultural Mass, una sequenza di tappe di 2-300 persone che si spostano in bicicletta occupando per quanto possono la città, gridando a ogni angolo che la cultura non è fatta tanto dai monumenti che incrociamo, ma dalle persone che danno loro vita ogni giorno. Piccolo Teatro, Accademia di Brera, Liceo Parini, Università Statale, Teatro Lirico (vergognosamente chiuso da 20 anni!!), Biblioteca Sormani sono le tappe della biciclettata, che si conclude in Piazza Scala. Interventi in ogni luogo dove un gruppo aspetta per la sua performance o lancia il suo appello, i suoi slogan. E’ un mondo frammentato, costituito per maggior parte da precari, dove le cooperative sono definite “fatturifici”. Oggi si sono uniti artisti, attori, musicisti e tutti coloro che stanno dietro le quinte, tecnici, bibliotecari, guide nei musei, fino agli artisti di strada.
Gli automobilisti scalpitano, suonano il clacson non tanto per solidarietà, ma perché si sbrighino, si tolgano di mezzo. Loro lo ripetono: senza cultura, senza arte, la città è morta. Viene ricordato anche il rapper Pablo Hasel in carcere in Catalogna per aver sbertucciato una monarchia impresentabile, bigotta e corrotta. Si pedala, si pedala fino a Piazza Scala, esausti, infreddoliti, dopo più di tre ore di tour per la città, nei vicoli, sul pavé, tra i binari del tram. Qualche turista in centro c’è e fotografa la massa di ciclisti, stanchi e sorridenti: qualcosa di diverso, di colorato, a Milano oggi c’è stato.