Si celebra oggi il Giorno del Ricordo, celebrazione istituita in Italia nel 2004 per commemorare le vittime delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata. La ricostruzione storica di quel periodo e di quei fatti è tra le più controverse e divisive della storia d’Italia del secolo scorso. Tra strumentalizzazioni, distorsioni e narrazioni artatamente parziali, l’analisi di quel periodo esce, quasi sempre, dal contesto storico per invadere la sfera della politica – molto spesso nel senso meno nobile del termine.
Aprire quel capitolo significa, tutt’oggi, trovarsi nel bel mezzo di uno scontro tra opposte fazioni: uno scontro che si esplicita, di norma in modo sterile, nella pura contrapposizione ideologica, buoni/cattivi, comunisti/fascisti e via dicendo. Lo studio storico, rigoroso e per quanto possibile oggettivo, resta sullo sfondo, quasi fosse un dettaglio secondario, persino trascurabile, soverchiato dalla necessità di far prevalere la propria presunta verità di parte, sovente omissiva.
Il 10 febbraio, dunque, non è un giorno come gli altri, ma è addirittura “un passaggio cruciale della nostra storia recente”. A definirlo così è Maurizio Tremul, italiano di Slovenia (nato e cresciuto a Capodistria) e presidente dell’Unione Italiana (UI), l’organizzazione che rappresenta la comunità nazionale italiana (CNI) che vive in Slovenia e Croazia – una comunità che conta oggi circa 30.000 persone che risiedono soprattutto sulla costa slovena, in Istria e nelle città di Fiume e Zara. Lo abbiamo intervistato per East Journal per dare voce agli italiani che hanno vissuto e che ancora vivono sulla sponda opposta dell’Adriatico: una voce importante, spesso trascurata, per capire meglio le vicende a cui rimanda il Giorno del Ricordo.
Perché il 10 febbraio è una data così importante per gli italiani di Slovenia e Croazia?
Perché è alla base della semplificazione etnica attuata sul nostro territorio che ha trasformato la nostra comunità da maggioritaria a minoranza esigua. L’esodo della maggioranza della popolazione italiana da questi territori ne ha cambiato radicalmente la composizione etnica, culturale, linguistica e identitaria. Ha lacerato un popolo, ha diviso famiglie portando dolore, disperazione e sofferenza. Sono iniziati, allora, dei percorsi molto diversi, tra chi scelse la dolorosa strada dell’esilio in Italia e chi la strada dell’esilio nella propria patria. Il 10 febbraio ci ricorda ogni anno le sofferenze e le violenze che abbiamo subito come italiani dal regime comunista dopo il 10 settembre del 1943 e dopo la fine della guerra, ma ci ricorda anche le sofferenze e le violenze che noi italiani abbiamo arrecato ai croati e agli sloveni, durante il fascismo.
In Italia questa data è vissuta in modo divisivo, una contrapposizione che si sposta dalla storia alla politica, perché secondo lei?
E’ sbagliato ricordare quei fatti in maniera divisiva. Non possiamo negare la verità: i misfatti e i terribili crimini del nazifascismo prima e poi del comunismo che, pur avendo contribuito a liberare l’Europa da un regime disumano, ne ha poi insanguinata una parte rilevante soggiogandola, diventando parimenti disumano. Serve conoscenza, informazione, istruzione, cultura, dialogo, rispetto reciproco. L’eventuale narrazione condivisa dei fatti presuppone il riconoscimento dei torti fatti e di quelli subiti, un processo che non può essere unilaterale. Noi, Unione Italiana, italiani di Croazia e Slovenia, questo percorso lo abbiamo fatto.
Cosa resta di non detto, di non riconosciuto a livello storico sulle foibe e sull’esodo?
Credo resti ancora molto da dire soprattutto a livello di ricerca storica, senza preconcetti o tesi precostituite, ma con obiettività e oggettività.
Dopo la fine della guerra, quali sono le ragioni che hanno spinto molti italiani a rimanere in Jugoslavia?
La stragrande maggioranza di chi rimase lo ha fatto perché non se la sentiva di lasciare tutto o perché, come è il caso della mia famiglia e di molte altre che conosco, gli anziani non volevano andarsene, abbandonare la loro terra e i loro morti. E’ stato un bene, è grazie a loro che oggi si parla ancora italiano in queste terre, l’Istroveneto e anche l’istrioto sono lingue ancora vive e vitali. Si produce cultura italiana, si perpetua l’identità italiana. Solo una piccola parte della minoranza rimase per scelta ideologica, altri, ancora meno, lo fecero per convenienza.
Quale era il clima intorno agli italiani in Jugoslavia nell’immediato dopoguerra e come è cambiato nel tempo?
Erano potenziali nemici in casa, sostanzialmente fascisti, perché fascista era sinonimo di italiano. Negli anni, lentamente, a costo di un prezzo altissimo in termini di assimilazione, il clima è cambiato fino a far quasi scomparire, al giorno d’oggi, queste percezioni.
Oggi si può dire che la comunità italiana sia integrata nelle società di Slovenia e Croazia?
La nostra comunità ha una percentuale altissima di matrimoni misti, non soffre di nazionalismi, è aperta e cooperativa con le altre componenti storiche del nostro territorio, persegue il dialogo interculturale, i valori della convivenza. È parte integrante di questo spazio antropico dove concorre a produrre cultura, civiltà, ricchezza economica e sociale. Rispetta gli altri, le loro tradizioni, la loro storia, le loro aspirazioni. Crede fermamente nei valori europei della democrazia, della solidarietà, della cittadinanza attiva, dell’integrazione che non significa assimilazione. Chiede, esige, il rispetto della propria storia, delle proprie origini, della propria lingua, cultura e identità che hanno forgiato in maniera incancellabile e profonda questa regione. Esige il rispetto e la piena applicazione dei diritti che gli ordinamenti giuridico-costituzionali sloveno e croato le riconoscono, che gli accordi e le intese internazionali e i principali documenti sui diritti minoritari europei sanciscono, senza se e senza ma. Certamente in Slovenia alla CNI, a cui sono assicurati importanti diritti, non viene riconosciuto quel ruolo politico attivo nella società che invece viene riconosciuto agli italiani in Croazia, in special modo in Istria, dove, a livello di autonomie locali e regionale istriana, ma anche a livello nazionale, ricoprono ruoli politici e istituzionali di primo piano.
Nessun pericolo di derive nazionaliste, dunque?
Nient’affatto. Noi siamo orgogliosi di rappresentare l’italianità di queste terre nel senso più aperto e rispettoso possibile, per nulla esclusivo ed escludente, privo di vene nazionalistiche, ma con l’orgoglio di essere consapevoli di appartenere a una grande cultura e civiltà. Siamo fieri di aver tenuto alto il nome dell’Italia di aver costruito ponti, in primis con la Comunità Nazionale Slovena in Italia, come pure con gli esuli in Italia, amicizia, fraternità, solidarietà, valori e pace.