Dorine Mokha è stato un ballerino, musicista, coreografo, scenografo e attivista per i diritti LGBTQ+ che ha rivoluzionato l’arte sociale della Repubblica Democratica del Congo. Con l’opera “Hercule de Lubumbashi” ha denunciato le violazioni dei diritti umani perpetrate dalla multinazionale Glencore nel Katanga. La sua misteriosa scomparsa, pochi giorni fa, a Lubumbashi all’età di 31 anni getta nuove ombre sulla storia di un paese offuscato da decenni di sfruttamento e povertà.
“Dopo la mia morte, vorrei che le persone ricordassero che, per tutta la vita, ho coltivato amore e tolleranza intorno a me; (…) e che ho rischiato la mia vita per poter vivere la mia verità, essere orgoglioso e far accettare chi sono“*.
Nel turbolento panorama sociale e politico della Repubblica Democratica del Congo, secondo paese più povero al mondo per PIL pro capite ed allo stesso tempo uno dei più ricchi per risorse minerarie, Dorine Mokha ha rappresentato per più di un decennio una delle voci artistiche più libere ed ispirate.
Ballerino, coreografo, sceneggiatore, musicista, ha utilizzato il proprio talento versatile per fare dell’arte un canale di espressione sociale attraverso cui suscitare consapevolezza e indignazione. Alla base della ricerca ha posto le emozioni come veicolo di attivismo civile, rappresentando sul proprio corpo le venature tragiche nascoste nella storia coloniale del Congo e dell’intero continente africano.
Catalizzatore critico di riflessione e cambiamento, nella sua carriera Dorine ha incarnato uno dei rari simboli di protesta all’interno del panorama culturale congolese contemporaneo, troppo spesso mortificato dalle maglie di una censura di stato che da tempo non ha più nemmeno la premura di nascondersi.
Attraverso spettacoli dal vivo e cortometraggi, ha lottato per la difesa dei diritti LGBTQ+, in una società dove l’omosessualità è generalmente intesa come una perversione indicibile e ancora nel 2013 il parlamento nazionale discuteva una proposta di legge per punirla penalmente.
In particolare con il film-spettacolo “Hercule de Lubumbashi” (2019), realizzato in collaborazione con l’artista polistrumentista Elia Rediger, ha denunciato con musica e danza le violazioni dei diritti umani perpetrate dalla Glencore, multinazionale svizzera che da decenni svuota il ventre ricco del Katanga e che recentemente è stata citata in giudizio negli Stati Uniti con l’accusa di sfruttamento del lavoro minorile ed in Svizzera per corruzione internazionale.
Versatile, ironico, coraggioso, ha dato voce ad un istinto universale di giustizia ricercandone le radici profonde nei sentimenti di amore e tolleranza. Le parole rilasciate al quotidiano maliano Rue223 in questo senso appaiono provvidenziali e sembrano tracciare le linee di un testamento spirituale a tratti profetico.
Nella serata dello scorso 8 gennaio, a soli 31 anni, Dorine è morto in un reparto dell’ospedale Gecamines Sud di Lubumbashi, ufficialmente deceduto a seguito delle complicazioni dovute ad una infiammazione orale. Le reali ragioni della morte e le circostanze in cui questa è avvenuta restano tutt’ora un mistero.
Sino alla settimana precedente al Natale 2020 Dorine aveva partecipato ad eventi culturali in città, tra cui una residenza artistica presso il centro culturale Atelier Picha, dimostrando come sempre la sua leggera e ironica giovialità. Vittima da tempo di minacce di morte per le sue battaglie a favore dei diritti LGBTQ+ e per uno sfruttamento minerario etico, la comunità artistica congolese non esclude che dietro all’inaspettata morte possano esserci le conseguenze del suo attivismo. Di certo l’evanescenza del sistema investigativo locale e una propensione sociale al fatalismo non aiutano nella ricerca della verità.
Quello che è sicuro è che la morte di Dorine spalanca le porte all’eco di un silenzio assordante. In un paese dove un sistema atavico di mecenatismo corrotto ha ridotto l’arte a simulacro del potere e dove un tessuto scolastico fatiscente impedisce sistematicamente la fioritura di un ambiente culturale progressista, la figura di Dorine rappresentava un faro di speranza illuminata.
L’unico augurio, in questo ennesimo frangente di sconsolatezza per quanti credono nel potere rivoluzionario della cultura, è che agli occhi del mondo attorno la sua ricerca senza paura lasci in eredità l’arte della curiosità e la leggerezza dello sguardo profondo.
E che sia la pietra su cui costruire un presente finalmente libero dalla speranza necessaria del domani. In Congo e non solo.