Alcuni giorni fa a Firenze si è tenuto un presidio unendo tre lotte: quella Saharawi, quella Palestinese e quella Kurda. Ti sembra un’operazione giusta e corretta?
Io credo di sì: sono tre popoli oppressi, segregati, vessati ininterrottamente. Noi dobbiamo stare sempre dalla parte dei perseguitati, non importa chi sia il persecutore. Essere persecutori è di per sé una disgrazia, nei confronti in primis di se stessi. In quel momento e si precipita nelle barbarie. La civiltà è la relazione con l’altro, con le minoranze.
Cosa avvenne per esempio al popolo armeno?
Gli armeni oggi hanno un loro territorio, ma a suo tempo furono sotto il potere ottomano e vennero perseguitati e sterminati. I turchi fecero un genocidio intorno al 1915, c’è molta letteratura al riguardo. Il genocidio armeno è uno dei tanti di cui non si parla e che il governo turco continua a negare. Da tempo sostengo che concentrare la Giornata della Memoria solo sulla Shoah è un grave errore. C’è un’associazione che si chiama Gariwo e sta lavorando per ricordare tutti i genocidi. La parte più reazionaria del mondo ebraico contrasta questa posizione.
Dovremmo partire dal colonialismo, che fu il massacro più spaventoso e dura ancora oggi, per poi toccare la guerra anglo-boera, dove gli inglesi istituirono i primi lager nel senso moderno del termine, le stragi dei giapponesi in Manciuria, quelle a Nanchino del 1937, una cosa inenarrabile per brutalità. Ho letto un libro al riguardo, ma ho dovuto smettere, era troppo… Lo aveva scritto un’infermiera statunitense presente ai fatti; tornata a casa, dopo sei mesi si suicidò. O ancora quello che hanno fatto i giapponesi nelle Filippine, i massacri nazisti e prima ancora fascisti, con le bombe al fosforo, i gas, l’iprite, in Libia e in Etiopia. Gli italiani “brava gente” ben descritti da Del Boca. Il genocidio immane commesso dai Khmer rossi verso il loro stesso popolo. I crimini commessi nella ex Jugoslavia, dove l’Europa o ha assistito o ha speculato. Vanno denunciati tutti i massacri, senza steccati ideologici, con coraggio, fino in fondo. La Giornata della Memoria dovrebbe chiamarsi “Giornata delle Memorie”. Quindi unire le oppressioni è importante. Noi europei, occidentali, siamo bravissimi a non vedere quello che succede a un palmo dal nostro naso, come se gli uomini non avessero le stesse sofferenze, non patissero le stesse oppressioni, gli stessi dolori, come se il loro sangue non fosse uguale ovunque.
Noi siamo chiamati a creare vaste alleanze, se vogliamo trasformare questo mondo nella direzione della giustizia sociale prima che sia troppo tardi. Galleggiamo su un letto di bombe atomiche che potrebbero anche scoppiare per auto-innesco… Io sono nel movimento per un totale disarmo nucleare, dobbiamo lottare e unire le lotte. La mia formazione è marxista, con altri elementi, dall’illuminismo, alla tradizione dei movimenti operai, di liberazione, in vista di una soluzione come prevedeva Marx: “Da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni.”
Ti chiedo di commentare due vicende di tribunali, una più nota, l’altra più vicina: il rischio dell’estradizione per Julian Assange[1] e la condanna di 5 mesi a due Ottoni a Scoppio per una presunta “resistenza a pubblico ufficiale”.
Sulla prima: Julian Assange dovrebbe essere insignito di quel che resta del Premio Nobel per la Pace. Quell’uomo ha compiuto il suo dovere, denunciando delle ingiustizie. Sulla seconda: io ho cantato spesso con gli Ottoni a scoppio, sarei stato davanti al tribunale con loro… Sono una meravigliosa orchestra che incarna la tradizione dei movimenti che rivendicano il diritto più sacro di tutti: l’uguaglianza tra gli esseri umani. Solo tra uomini uguali si può parlare di libertà.
Ci spieghi, dal tuo punto di vista, il legame tra Israele e gli Stati Uniti?
Entrambe queste nazioni hanno l’immagine a monte di “un destino”, la retorica “essenzialista” di “una terra che era destinata a noi”… In realtà gli Stati Uniti sono frutto di una colonizzazione seguita al massacro delle popolazioni native. Israele nasce nel 1948 sicuramente in seguito a persecuzioni tremende, ma grazie a un movimento sionista basato sull’idea di trovare una terra per un popolo. All’inizio furono ipotizzati altri luoghi – Uganda, Suriname – poi invece si optò per la Palestina basandosi addirittura sulla Bibbia, quindi con una potenza formidabile: “Il popolo ebraico era già stato lì, era stato deportato, aveva diritto a tornarci…” Il “genio ebraico” inventò un popolo mettendo insieme genti disparate, spesso sbandati e filibustieri, un “mucchio selvaggio”, che occupò quella terra. Così sia Stati Uniti che Israele credono di occupare una “terra santa”.
Lasciando il piano “essenziale” e passando a quello più concreto, è importante sapere che lo Stato di Israele non è nato grazie agli Stati Uniti, ma grazie all’Unione Sovietica di Stalin, il quale diede appoggio politico, diplomatico e militare agli ebrei che combattevano la Palestina mandataria. Le armi furono inviate attraverso la Cecoslovacchia per aggirare il blocco inglese, mentre una parte dell’amministrazione americana era contraria alla nascita dello Stato di Israele. Ricordiamoci che c’era il maccartismo, ossia la caccia alle streghe comuniste, ma spesso ebrei e comunisti venivano accomunati. Negli anni tra il ‘47 e il ‘48 nei cinema di Tel Aviv e Haifa a fine proiezione venivano suonati l’inno di Israele, l’internazionale del lavoro e l’inno sovietico. E questo è bene saperlo.
Stalin pensava che Israele sarebbe diventato un paese socialista, sia per i kibbutz, sia perché all’inizio ebbe un’impostazione sovietica; quando capì che non sarebbe andata così, si imbestialì e tra il ‘49 e il ’53scatenò una vera persecuzione antisemita. Bisogna ricordare un altro fatto: nella Costituzione sovietica del 1918 l’antisemitismo era perseguito penalmente, era un crimine contro lo Stato (mentre nel resto d’Europa era permesso e diffuso…). Nel ’36 con la seconda Costituzione, sotto Stalin, questo punto non cambiò. Quella campagna a fine anni ’40 dovette essere “sommersa”, ma molti incarichi di ebrei in URSS saltarono. La svolta venne decisa da Ben Gurion: andare con l’Occidente. Fu una cosa graduale, fino a che nel ’67 i governi di Stati Uniti e Israele diventarono pappa e ciccia.
Consiglio a tutti la lettura di un libro di William Blum, funzionario del Ministero degli Esteri americano, ultrareazionario e anticomunista fino alla guerra del Vietnam, costruita su una montagna di menzogne. Lui ne fu talmente disgustato che abbandonò il dipartimento, giurò a se stesso che avrebbe denunciato i crimini delle amministrazioni del suo paese e divenne giornalista indipendente. Due suoi libri, documentatissimi, sono da leggere assolutamente: “Il libro nero degli Stati Uniti” (Fazi editore) e “Con la scusa della libertà” (Tropea editore). La disanima parte da quando gli Stati Uniti parteciparono con altri dodici paesi imperialisti a quel perfido cordone sanitario contro la rivoluzione russa nel 1918. Appoggiando lo Zar aggredirono l’URSS appena uscita da guerra e rivoluzione, per farla a pezzi. Fu un’operazione canagliesca agli occhi dello stesso Winston Churchill.
Israele è più legato agli Stati Uniti da un’alleanza organica, economica, politica e militare; gli ultimi governi da una parte e dall’altra lo hanno ribadito e da quando la parte più reazionaria ha preso il potere la preferenza è smaccatamente per i repubblicani più oltranzisti. Moshe Sharett, che fu primo ministro israeliano subito dopo Ben Gurion, era una persona di grande cultura che parlava perfettamente arabo e cercava una soluzione di dialogo, ma nel giro di qualche anno fu estromesso e si ritirò.
Tu puoi andare in Israele o no?
No, verrei respinto e non voglio dare loro questa soddisfazione. Se mi invitassero e potessi parlare liberamente ci andrei e direi quello che penso e cioè che non c’è giustificazione alcuna all’oppressione colonialista, segregazionista e razzista del popolo palestinese. Lo dico e lo ripeto da tempo. Sostengo che l’attuale sionismo non ha nulla a che fare con quello delle origini, è solo un iper-nazionalismo isterico.
Per quello che dico vengo regolarmente boicottato nel mio lavoro. In occasione dell’incarico che ho ricevuto presso il teatro di Ferrara sono arrivati due ebrei ultrareazionari e uno ha detto: “Moni Ovadia e Gad Lerner sono feccia, le loro vite non hanno senso.” Ho ricevuto anche un insulto pittoresco: “Peccato che i tuoi genitori non siano morti nella Shoah, così non nascevi…” Non me la prendo perché so che dietro c’è una psicopatologia e io non sono uno psichiatra.
Dalle tue parole traspare anche una tradizione anarchica, eppure non l’hai nominata.
Hai ragione, è la mia vera vocazione: pur con tutte le riduzioni date dalle definizioni, potrei definirmi anarco-comunista. Gli anarchici avevano una ragione incontrovertibile: qualsiasi potere, anche il migliore, finisce per essere autoreferenziale e non garantisce piena uguaglianza, libertà e sviluppo della personalità umana in ciascuno di noi. Gli anarchici sono stati molto lungimiranti; il problema è che per costruire un’umanità capace di vivere nell’anarchia, nel senso nobile e alto del termine, credo che non bastino i millenni. Ci vuole un livello di preparazione e di coscienza interiore altissimo, che fino a ora appartiene a pochi. Che Guevara parlava dell’Uomo Nuovo, capace di vivere in una società socialista e aveva una profonda vena anarchica.
Eppure tra comunisti ed anarchici non è proprio corso “buon sangue”….
Questa è una storia molto, molto dolorosa, che vale anche per i comunisti trotzkisti. Nella guerra di Spagna abbiamo visto queste cose e sono ferite ancora aperte. E’ una specie di male endemico dei movimenti per l’uguaglianza; guarda Potere al Popolo, sono in quattro e si dividono in due. E’ molto ebraica questa cosa. Come quella storiella, geniale, dove un ebreo finisce in seguito a un naufragio in un’isola deserta. Lui è molto abile e costruisce un sacco di cose, è ingegnosissimo. Dopo molti anni lo trovano, lui mostra la sua isola al comandante della nave che va a recuperarlo e quando a un certo punto questi gli chiede cosa sono quelle due costruzioni in alto, lui risponde: “Quella di destra è la sinagoga dove vado” “E l’altra?” “Quella è una sinagoga dove non metterei piede nemmeno per 10.000 dollari!!” Abbiamo bisogno sempre di un nemico e se non c’è, ce lo costruiamo. Non a caso è stato un ebreo che ha fondato il comunismo!!
Cambiando argomento: a suo tempo sperasti anche tu in Giuliano Pisapia?
Non solo ci sperai, feci la campagna per le primarie e poi per le elezioni a Sindaco di Milano. Sai, nei momenti in cui c’è da lottare gli estremisti come me fanno sempre comodo e dopo fingi di non conoscerli. Si è rivelato, lo dico alla “mafiosa”, un pupo e questo è stato motivo di grande rammarico per me. Era terrorizzato che gli proponessi un convegno sui palestinesi o di prendere posizione a loro favore; tutti temono sempre che chieda qualcosa per i palestinesi.
Dario Fo fu vicino a candidarsi a Sindaco di Milano. Tu ci hai mai pensato?
Dario era una meraviglia, un dono del cielo, se non fosse che io non sono credente, ma non avrebbe potuto fare “il politico”, come con le debite proporzioni non posso farlo io. Siamo militanti, siamo attivisti. Stare in mezzo alla burocrazia inamovibile del Comune? Anche a me lo hanno chiesto, ma non ci ho pensato un attimo. Anche lui lo capì. Credo che quando andò in Parlamento con Di Pietro Franca Rame soffrì moltissimo. La politica, per come è strutturata oggi, è fatta di compromessi e aggiustamenti spesso molto, ma molto, al ribasso. Io credo che un governo decente, di sinistra, per come lo intendo io, dovrebbe dire: giustizia sociale, istruzione, cultura, salute pubblica, pace, mai guerra. Su questo non possiamo transigere. Senza giustizia sociale non c’è giustizia, è solo una truffa. Neanche col Covid: tutti starnazzano, ma il mainstream mediatico è fatto per perpetrare se stesso e il sistema. Nessuno ha messo in discussione seriamente questo sistema.
Quando mi candidai per Tsipras lo feci per dare una mano, ma dissi subito che non sarei andato in Parlamento.
In questo periodo particolare, come nelle piazze degli Indignados, c’è stato un importantissimo incontro tra la tua generazione e i ventenni che lottano per la sopravvivenza del pianeta o della specie, senza sapere in cosa sperare. Dimmi tre autori che consiglieresti di leggere e cosa diresti loro.
Non sono certo esaustivi, ma proviamo. Prima di tutto Noam Chomsky, che ha una grande lucidità ed è un uomo estremamente informato. Non parla per slogan, ma secondo analisi profonde, mettendo in scacco le retoriche di questo potere scellerato delle multinazionali. In secondo luogo: il giovane economista marxista Emiliano Brancaccio, molto autorevole, documentato e ferrato in tutte le dottrine economiche. Lo dico perché credo che per avere un cambiamento vero devi prendere per forza in carico l’economia. Brancaccio dice che c’è solo un modo per garantire la democrazia e la libertà individuale: un’economia di piano. E lo motiva talmente bene, con argomentazioni inoppugnabili, che riducono in polpette gli economisti mainstream. Ha scritto un libretto intitolato “Anti-Blanchard. Un approccio comparato allo studio della macroeconomia”, in cui smonta le tesi di Dominique Blanchard, che è stato a capo del FMI durante la crisi del 2007 e negli anni seguenti, quando hanno massacrato la Grecia. Il libro era talmente forte e valido che lo stesso Blanchard disse che voleva andare con lui a presentarlo e gli ha riconosciuto molte ragioni. Bisogna quindi farsi almeno un’ossatura nel campo della politica economica. Direi infine di leggere almeno un libro di Zygmut Bauman, perché fa capire in quale società viviamo e quali sono state le sue modifiche strutturali. Bauman ha lavorato nei servizi segreti sovietici durante la seconda guerra mondiale. Ha presente con quale capitalismo abbiamo a che fare, quella che io definirei “metastasi del capitalismo”.
Dobbiamo mobilitarci in questa alleanza tra generazioni, ciascuno nel suo ruolo. Tutte le grandi rivoluzioni sono state compiute da giovani e giovanissimi. I russi, i cubani, i cinesi che fecero la rivoluzione erano giovani. Ci vogliono giovani che abbiano forze, energie ed orizzonte lungo e che conoscano meglio di noi questa società, i suoi aspetti comunicativi. Io ci sarò sempre, non mi tiro indietro, ma sono un uomo del ‘900.
[1] L’intervista è del 3 gennaio, dunque prima della sentenza della corte britannica che ha negato l’estradizione di Assange negli Stati Uniti.