La terra rossa, rossiccia, rossastra. È la prima cosa che si nota ad arrivare in Brasile. La terra rossa che bastano due gocce d’acqua per trasformarsi in poltiglia appiccicosa, in melma umida, paesaggio caratteristico di ogni aiuola cittadina, giardinetto innocente sempre pronto ad ingoiarti le scarpe e non mollarti mai più. La terra rossa.
Era il 26 dicembre. Inviperiti, i commercianti e gli imprenditori dei servizi si riunivano sotto la sede del governo contro le misure restrittive intraprese nel tentativo di frenare l’aumento dei casi e di evitare il collasso degli ospedali. Manaus, due milioni di abitanti o forse più, sulla riva del grande fiume, circondata dalla foresta primordiale. Manaus, zona franca, in cui le multinazionali dell’elettronica agiscono protette da esenzioni fiscali o quantomeno da incentivi unici al mondo. Manaus, ricchissima fino a cent’anni fa, meta di avventurieri, commercianti e sognatori, costruisce un teatro dell’opera che, come la nave di Fitzcarraldo, vuole portare valaori e stile di vita europei tra i piraña e i coccodrilli: la produzione di látex e il suo monopolio mondiale garantiscono lusso e prosperità, la nascita di nuovi ricchi perfettamente adattati al capitalismo del commercio globale, nuovi ricchi crudeli quanto i vecchi, signori schiavisti, padroni di vita e morte delle popolazioni indigene che per sopravvivere si ritiravano sempre più lontano, cercando la protezione nel verde profondo della foresta. Lusso e ricchezza, feste sontuose, compagnie di ballo, tenori e soprano, Manaus più ricca di Parigi, Manaus caput mundi. Basta una incisione sul tronco, e aspettare. Il lattice, cola goccia a goccia. Il tronco magico stilla il suo oro bianco per decenni. Manaus decide di vivere aprendo i suoi porti a migliaia di migranti venuti dalle zone più miserabili del semi-arido brasiliano, il nord-est dimenticato da Dio, terra di morte e di saudade. Legioni di uomini penetrano la selva a incidere i tronchi dell’albero benedetto, fino a quando Henry Wickham, un avventuriero inglese, riuscì a trasportare di contrabbando settantamila sementi di seringueira, l’albero della gomma, fino all’orto botanico di Londra. Settecento sterline è il prezzo del tradimento. E per settecento sterline, l’Impero Britannico qualche anno dopo sposta l’asse del mercato internazionale della gomma, dal Brasile alla Malesia, dove i semi trafugati hanno attecchito benissimo. Terminava in una lunga agonia il terzo grande ciclo economico brasiliano. Il primo, l’estrazione predatoria del Pau-brasil, un albero dal legno duro usato per ricavarne il pigmento rosso per le vesti delle dame di corte e le tonache cardinalizie. Il secondo, la canna da zucchero, nelle cui raffinerie rudimentali nascevano e vivevano milioni di schiavi. Ed infine, il ciclo della gomma, finito miseramente per mano del primo bio-contrabbandiere della storia. Manaus.
Acqua amazzonica per navigare fino ai confini del mondo e terra rossa, dove seppellire i suoi morti. Nella prima fase della pandemia, le fosse comuni scavate dai bulldozer colpivano l’immaginazione mondiale alla stregua dei camion di Bergamo. Il nuovo mondo lugubre costruito a nostra immagine e somiglianza ci ricordava che non siamo polvere, ma fango.
Era il 26 dicembre, i commercianti, gli esercenti, i baristi, i bottegai, gli impresari del settore dei servizi, riuniti in massa sotto il palazzo del governo. Gridavano come forsennati per la riapertura delle loro botteghe, bar, negozietti, magazzini. L’economia non può essere fermata da una curva di contagio che nessuno ne ha mai capito il significato. Nessuno lo ha mai spiegato. Perché non esiste un comitato di crisi, non esiste una coordinamento nazoinale, perché il ministro della salute è un generale di corpo d’armata, perché il presidente della repubblica – come dice la relazione annuale di Human Right Watch – ha cercato sistematicamente di sabotare ogni iniziativa per fermare la pandemia. Eccoli allora i commercianti, bottegai, imprenditori con i loro urli e le loro imprecazioni contro coloro che cercano in tutti i modi di dire che l’unica forma di salvarci è quella di stare a distanza. Niente da fare. La protesta va avanti, sono migliaia, senza maschera. Il governatore cede. Tutto può tornare a funzionare. Era il 26 dicembre.
Senza più ossigeno negli ospedali, Manaus entra in collasso. Nei cimiteri non c’è più posto per seppellire i morti. Da oggi è stato dichiarato il coprifuoco. Dice il più importante sito brasiliano di notizie.
Un medico: quello che stiamo vivendo non potevo immaginarlo neanche ei miei peggiori incubi… uno scenario di guerra. Sono finite le riserve di ossigeno e i pazienti agonizzano in “camere di soffocamento”.
Qualche giorno fa il ministro era proprio là, a Manaus. Non per organizzare la futura distribuzione del vaccino, non per verificare la situazione ospedaliera, ma per imporre ai medici locali la somministrazione di Clorochina (le cui dosi comprate a milioni dall’esercito giacciono inerti nei suoi magazzini) e Invermectina, un rimedio contro vermi e parassiti, da usare come trattamento preventivo: nel Brasile di Bolsonaro la morte non è più causata da una malattia, dalle precarie condizioni di vita della popolazione, dalla pandemia, da un virus. Nel Brasile di Bolsonaro la morte è un progetto politico.
Un infermiere, visibilmente desolato, stravolto, in lacrime, apre le braccia, gli occhi al cielo, crocifisso vivente, si rivolge alla sua gente: il popolo sta morendo soffocato, pregate per l’Amazzonia. Come in uno scenario medioevale, come nella peste manzoniana, cadaveri vivi e cadaveri morti si ammucchiano nei corridoi di ospedali saturati. Senza più ossigeno, nella terra rossa, muore Manaus.