Adoniran Barbosa, cantante compositore, attore e sambista, fece del quartiere chiamato Bixiga la sua ispirazione. Qui visse e cantò l’anima di São Paulo e la sua gente semplice, travolta da un progresso incomprensibile. Col suo linguaggio dialettale, rese famose queste strade, queste scalinate, questo saliscendi infinito, abitato da discendenti di italiani e afro-brasiliani le cui storie si intrecciano in un esempio unico di coesa convivenza comunitaria. Adoniran Barbosa vive in ogni canzone, ma anche in ogni angolo del suo quartiere, Bixiga.
Adoniran, ora è un busto in un angolo nascosto della piazza. Solchi nelle rughe, o rughe a scavare solchi nella faccia da pagliaccio triste. Che Vinicius de Moraes, il profeta della bossa nova, mi perdoni, ma cá niscuno è fesso e noi “Tomba del Samba” non lo siamo proprio, e parli come badi e si tenga per lei gli insulti e il profondo disprezzo: la Vai-Vai, la più prestigiosa aggregazione sambista di São Paulo, è qui di fianco e pulsa più viva che mai. Basta una passeggiata per i vicoli del quartiere per vedere, percepire, sentire sulla pelle e nel bumbum del cuore, la presenza nera che mescolata a persone e culture provenienti dai migranti italiani, ha dato al samba una caratteristica unica, nostra. La São Paulo delle notti mai dormite, ringrazia, il samba ringrazia, il mondo ringrazia ogni frase del maestro, Adoniran, anima immortale del quartiere.
Ancora prima del parere definitivo, ancora prima della riunione del Consiglio, le inferriate già circondano il terreno, filo spinato in difesa della proprietà privata, lo stand di vendita a posto, pronto a ricevere l’illusione degli acquirenti. Diciotto piani nel cuore della viuzza di vecchie case, testimoni del secolo dell’immigrazione, del lavoro e dell’adattamento al suolo brasiliano, reminiscenze europee a formare un insieme architettonico tipico e unico. Sul quel terreno c’era un parcheggio, uno spazio orribile per centinaia di automobili, che con la loro intrinseca volgarità, macchiavano di fetore la tranquillità delle colline, gli alberi, le balaustre, i colori, le finestre incorniciate. Ora che il Consiglio si è piegato agli interessi del mercato, su quel lotto libero, apparirà un mostro, un insulto architettonico di diciotto piani, “cortile privato, vista esclusiva, sentinelle e sicurezza per la tua famiglia”, un’aberrazione estetica che getterà sul primo sguardo del passante la violenza di due piani di garage, rifugio delle automobili dei futuri residenti: soffocando il marciapiede, violando il sole, la luce, l’aria, lo spazio, aberrazione estetica ed etica, pugnale conficcato nel cuore degli uomini. Sì, concepire un edificio di quelle dimensioni in una piccola strada di un quartiere storico, dove il maestro Adoniran incontrava i personaggi delle sue canzoni, è una ulteriore aggressione al diritto di vivere nella città che vogliamo più umana, dove le relazioni di vicinato non vengano inghiottite dalla violenza dell’immanente, ma continuino nella dimensione della tranquilla lentezza, signora di tutte le cose.
Scale monumentali e vicoli mediterranei si uniscono all’aspra planimetria del luogo attraversando cortili dove l’odore del gelsomino resiste a quello del diesel dei viali mostruosi, costruiti come muri di frastuono sulla soglia di porte e balconi. Negozi di antiquariato e mercatini garantiscono passeggiate culturali, mense popolari e bar che non raccomando, circondando la chiesa, dove una sacra immagine della Madonna, chiama a sé migliaia di fedeli in una delle più grandi feste della città, in cui l’Italia si reinventa per mano di mamme rotonde e soffici, custodi misteriose di segreti culinari distribuiti a tutti per due soldi. Donnette in bigondi su e giù per vicoli storti con le loro pesanti borse della spesa. Un centro di accoglienza per uomini di strada tratta con dignità i nostri fratelli e più bisognosi. Falegnami a torso nudo e i loro attrezzi sul marciapiede in modo che la luce del giorno illumini la precisione di un lavoro antico. Gruppi animati discutono di politica vicino al più piccolo, ma più bello, bar del quartiere dove, fino a poco tempo fa, chi entrasse gridando contro il presidente Michel Temer poteva giovarsi di un bello sconto. Vita pulsante. Il profilo basso delle case e dei piccoli edifici lascia che il sole giochi all’ombra di scorci impossibili, dove l’angolo retto è stato abolito per decreto divino. Si sale da una parte, si scende dall’altra…, e il “progresso” arriva con le sue ruspe, i suoi cavalcavia e il mondo infame sotto di essi. Ma il Teatro, nato da un sogno di Lina Bo Bardi e Zé Celso, è riuscito a resistere coraggiosamente. Ora vogliono soffocarlo, circondarlo nell’abbraccio mortale di un centro commerciale. Il Teatro resiste. Ma ha paura. La decisione del Consiglio potrebbe essere un precedente letale, non solo per il Teatro stesso ma per tutto il quartiere.
Il Consiglio, organo comunale con funzione deliberativa, cede alla pressione delle imprese edili e dà la sua approvazione alla costruzione di un edificio, su quel terreno in cui funzionava un parcheggio abusivo, accanto alle case colorate, alle finestre incorniciate e alle balaustre. Non importa che gli immediati dintorni siano protetti da specifiche leggi di conservazione. Non importa. L’edificio emergerà con la sua sordida violenza. Un solo voto al contrario: la coraggiosa e instancabile professoressa cerca di ribaltare la situazione, spiega l’importanza fondamentale del paesaggio come mezzo di appartenenza alla comunità, parla della storia del quartiere e della dimensione del vivere urbano. Ma tutto era già deciso, con grande anticipo, i giochi fatti, tutto deciso, tutto dominato. La pressione della speculazione immobiliare ha mezzi e tentacoli per convincere i consiglieri che, questa volta, stanno snaturando la funzione del Consiglio stesso: proteggere, aver cura, tutelare il patrimonio storico, artistico e culturale, senza cedere alle lusinghe del profitto ad ogni costo. A chi appartiene il paesaggio? Al proprietario dell’impresa o a tutti noi? Hanno già deciso. L’enorme edificio nascerà e crescerà con la sua volgarità, la sua apparente bruttezza. È finita. E i protagonisti delle canzoni di Adoniran, come in una favola, si riuniranno sul marciapiede antistante e assisteranno alla demolizione delle poche casupole, ormai indegne di vivere.
Seduto sulla panchina della piazza, guardo il busto di Adoniran, pagliaccio triste. Spero che ora, nonostante l’ignobile decisione del Consiglio, gli agguerriti collettivi popolari del quartiere riescano a ribaltare la situazione. Mentre Adoniran mi guarda, un uccello colorato lascia il suo ricordino sulla manica della mia camicia. Dicono che porti fortuna…
Dov’è la mia casa, la mia dolce e amata casetta dove abbiamo passato i giorni più felici della nostra vita, dov’è? (Adoniran Barbosa)