«E allora le foibe?» è diventato il refrain tipico di chi sostiene che si parla troppo della Shoah e che si parla troppo poco delle Foibe. In realtà sono gli stessi che non si preoccupano dell’esistenza di altri genocidi da ricordare, come quello degli indigeni americani o degli aborigeni australiani, ma piuttosto usano questo refrain retorico per legittimare la loro posizione: il risorgente nazionalismo italico, azzittendo l’avversario. Ma di cosa parliamo quando parliamo di Foibe? Cosa è successo realmente?
A leggere gli articoli dei giornali e a sentire le dichiarazioni dei politici sul numero delle vittime delle foibe sembrano «Decine di migliaia», «centinaia di migliaia», fino a «oltre un milione». Negli anni, tutta la vicenda dell’esodo istriano-dalmata è diventata oggetto di polemiche sempre più forti e violente, frutto di una strumentalizzazione politica del tema. Questo libro, “E allora le foibe?”( appena uscito per Laterza) è rivolto a chi non sa niente della storia delle Foibe e dell’esodo, con l’intento di evidenziare errori, mistificazioni e imbrogli retorici che rischiano di costituire una “versione ufficiale” molto lontana dalla realtà dei fatti, ricca di revisionismo storico.
Sull’argomento ne parliamo con lo storico torinese, nonché autore del libro, Eric Gobetti, studioso del Fascismo, della Seconda Guerra Mondiale, della Resistenza e della storia della Jugoslavia nel Novecento. Negli anni ha condotto ricerche sull’Attentato di Sarajevo, sul movimento ultra-nazionalista croato Ustascia nell’Italia degli anni Trenta, sulle stragi nazi-fasciste e sulle raccolte audiovisive della Resistenza in Piemonte, sui crimini di guerra italiani nei Balcani e sulla presenza italiana in Jugoslavia durante la Seconda Guerra Mondiale. Autore di moltissimi libri, scrive per testate nazionali e riviste on-line, organizza viaggi culturali nei Paesi della ex-Jugoslavia ed è stato relatore in numerosi convegni nazionali e internazionali.
Da dove nasce l’esigenza di scrivere questo libro “per i non addetti ai lavori”?
Ci sono due ragioni che mi animano: una professionale, cioè la necessità di ribadire la verità storica, non nel senso di una verità assoluta, ma nel senso dei risultati raggiunti dalla ricerca storica allo stato attuale delle ricerche. Siccome questi risultati sono molto distanti dal discorso pubblico sugli stessi temi, mi sembrava necessario ribadire ciò che è realmente successo, appunto non per gli studiosi, che già lo sanno, ma per la gente comune che invece ogni anno ne sente parlare in termini del tutto errati.
Ma c’è un’altra ragione, una sorta di dovere civile, che mi anima, da storico ma anche da cittadino. E cioè impedire che questo racconto distorto degli eventi contribuisca a suscitare nuovo odio (mediante l’uso di stereotipi anti-slavi) e a dare consenso a chi usa in maniera falsa e strumentale la storia per capovolgere i valori fondanti della nostra Repubblica, che sono quelli dell’Antifascismo e della Resistenza. Anche in questo caso mi rivolgo alla gente comune, non nettamente schierata politicamente, per ribadire che non si può (a causa di quei crimini che senza dubbio ci sono stati) condannare l’intero fronte antifascista, i valori che incarnava, capovolgere la storia e presentare i fascisti solamente come vittime innocenti. Il fascismo ha contribuito a scatenare la guerra peggiore che l’umanità ricordi, e ha combattuto fino all’ultimo dalla parte del nazismo, di chi faceva della violenza un valore, di chi ha sterminato interi popoli per ragioni politiche e razziali. Questo va ribadito con chiarezza, pur condannando i crimini delle foibe.
Dove ha origine il razzismo anti-slavo? Quali furono le conseguenze dell’italianizzazione fascista delle terre slave?
Il razzismo anti-slavo è un fenomeno antichissimo, che permane ancora oggi e rende possibile una rappresentazione grottesca di quegli eventi storici attraverso l’uso di stereotipi consolidati che presentano gli slavi come barbari, incivili, “naturalmente” violenti. I due film prodotti dalla Rai, Il cuore nel pozzo (2004) e Rosso Istria (2019) ne sono chiari esempi.
Con la stessa presunzione di superiorità culturale (ma all’epoca anche razziale) l’Italia fascista impose l’italianizzazione forzata a quelle centinaia di migliaia di slavi che si trovarono a vivere dentro i nuovi confini italiani dopo il 1918. Venivano così italianizzati obbligatoriamente i nomi, i cognomi, i toponimi. La lingua slovena e croata era proibita, persino in strada o in chiesa, e persino nei paesi dove non c’erano abitanti di lingua italiana (come in molte località del Carso), e gli slavi erano svantaggiati in ogni campo: sociale, economico, scolastico, lavorativo…. Tutto ciò nella presunzione che queste persone avrebbero abbracciato l’identità italiana perché “superiore”. Così non fu, e comprensibilmente molte persone soggette a quest’oppressione per più di vent’anni finirono per covare odio verso chi li opprimeva, ovvero lo stato italiano e i suoi rappresentati.
Il mito “Italiani brava gente” ha annebbiato la storia dei crimini di guerra italiani, dei lager fascisti e dei campi di concentramento contro le popolazioni slave. Cosa fu il campo di concentramento di Arbe?
Se c’è un tema storico su cui è calato un vero oblio è proprio quello dei crimini fascisti, non solo durante le occupazioni nei Balcani nella seconda guerra mondiale, ma forse ancora di più negli anni Trenta in Libia e in Etiopia. Questa “dimenticanza” ha consentito di costruire un’immagine edulcorata dei comportamenti dei soldati e dell’esercito italiano nel suo complesso, appunto quello stereotipo del bravo italiano, sempre umano e generoso anche quando occupa territori altrui. Purtroppo questo immaginario è molto lontano dal vero. Certo l’esercito fascista non ha condotto pratiche genocidiarie tipiche del nazismo, ma agiva nei territori occupati con una logica repressiva spietata. In Jugoslavia la strategia adottata dal nostro esercito era paragonabile a quella che caratterizzò in seguito l’esercito tedesco occupante in Italia: l’obiettivo primario era terrorizzare le popolazioni civili per impedirgli di dare supporto alla Resistenza. Con la conseguenza di incendi, distruzioni, catture di ostaggi, fucilazioni per rappresaglia, e la creazione di campi di concentramento dove vennero internati circa 100.000 jugoslavi, in gran parte civili. Il più noto di questi campi si trovava ad Arbe, sull’isola di Rab, non distante da Fiume. Qui morirono circa 1.500 persone (soprattutto donne e bambini), non uccise volontariamente, ma lasciate morire di fame o di epidemie. “Individuo malato = individuo che sta tranquillo”, scriveva il generale Gastone Gambara, capo delle truppe italiane nella zona, in riferimento alle condizioni drammatiche delle persone rinchiuse in quel campo. Per contribuire a diffondere la memoria di questa storia, forse la pagina più vergognosa e meno conosciuta della nostra occupazione, sto portando avanti insieme al collega Andrea Giuseppini, un progetto di ricerca per il quale stiamo promuovendo un finanziamento dal basso. Si può contribuire su questa pagina web: https://www.produzionidalbasso.com/project/il-campo-di-concentramento-di-arbe-una-storia-italiana/
Come viene raccontato oggi l’esodo istriano-dalmata e come, invece, dovrebbe essere contestualizzato?
Nel discorso politico-mediatico, e purtroppo talvolta anche nei discorsi presidenziali per il Giorno del Ricordo, si parla comunemente di “pulizia etnica”. Tutti gli storici che hanno studiato il fenomeno affermano che è scorretto utilizzare questo termine. L’esodo è un fenomeno di lunga durata, che comincia già nel corso della guerra e termina a metà degli anni Cinquanta, ed è scollegato dai due momenti di violenza che colpiscono soprattutto le popolazioni italiane, nel 1943 e nel 1945, che comunemente vengono ricordati con il termine simbolico di “foibe”. Le popolazioni che lasciano questi territori non lo fanno dunque perché costrette con la forza o in seguito a episodi di violenza (come avviene nei fenomeni definiti di “pulizia etnica”), ma per una molteplicità di ragioni di tipo sociale, economico, politico, psicologico, e certamente anche nazionale. Inoltre da parte jugoslava non c’è stata la volontà di allontanare un’intera popolazione, ma solo una percentuale di individui apertamente contrari al nuovo regime comunista che si stava imponendo, a prescindere comunque dalla nazionalità. Infatti se ne vanno anche decine di migliaia di sloveni e croati, sebbene non ne abbiano il diritto per legge (a differenza degli italiani, che possono “optare” se rimanere o andarsene).
Tutto ciò non significa negare la sofferenza patita da queste persone. Anzi, al contrario, secondo me significa dargli valore, proprio perché viene spiegata nelle sue reali motivazioni. D’altronde tutta quella tragedia, che cancella per sempre una realtà multiculturale nel cuore d’Europa, è il risultato finale dello spostamento del confine, in seguito alla sconfitta dell’Italia fascista in una guerra che aveva contribuito a scatenare.
Come nacque il revisionismo storico sulle foibe? Fu l’inizio delle mistificazioni di una lunga e lenta propaganda politica?
In realtà è stato un processo molto rapido, che è ancora in corso. Si tratta di uno dei tanti fenomeni drammatici della seconda guerra mondiale che ha faticato a entrare nell’immaginario collettivo per una serie di motivi soprattutto politici. In questo caso i due partiti dominanti in Italia, il PCI e la DC, condividevano lo stesso timore nel sollevare il problema, ma per ragioni diverse. I comunisti non volevano mettere in discussione la memoria pubblica della Resistenza, che non poteva essere “sporcata” da un episodio di “resa dei conti” violenta. I conservatori che governavano il paese non volevano invece creare dissidi con la Jugoslavia, che è stata, dal 1948 fino al 1990, un ottimo alleato del campo occidentale, in funzione antisovietica.
In maniera analoga, il tema è entrato improvvisamente nel dibattito politico nei primi anni Duemila perché faceva comodo a due partiti apparentemente in contrasto: gli eredi del PCI (all’epoca DS) e i neofascisti (all’epoca AN). Quella costruzione simbolica della “pulizia etnica” subita dagli italiani faceva comodo ai comunisti, che potevano presentarsi come un vero partito “nazionale”, che aveva a cuore le sofferenze patite dagli italiani ad opera di stranieri (non importa se partigiani); allo stesso tempo essa rappresentava il riconoscimento di una propaganda che era stata sempre condotta dai neofascisti, interessati ad appropriarsi della memoria degli esuli, che in gran parte fascisti non erano.
E’ anti-storico e revisionista commemorare Shoah e Foibe in due date così vicine o, come succede in alcuni comuni, in una data unica?
Assimilare le Foibe e la Shoah era fin dall’inizio uno degli scopi dei neofascisti che proposero la legge istitutiva poi approvata nel 2004. I due fenomeni sono completamente diversi, non hanno nulla in comune (se non l’epoca di violenza in cui si svolsero) e rappresentarli come simili denota una palese malafede da parte di chi lo fa. Lo scopo è sempre quello di scagionare dalle sue responsabilità il fascismo. In questa rappresentazione i tedeschi avrebbero massacrato gli ebrei (e si dimentica volentieri il contributo dato dalle istituzioni e dai militi fascisti alla deportazione); così come gli jugoslavi avrebbero massacrato gli italiani (dimenticando naturalmente tutti crimini commessi prima dal fascismo, che non giustificano, ma spiegano almeno in parte quegli eventi).
Ecco, la vicinanza (anche terminologica) delle due date memoriali serve a dare l’idea che le violenze patite dagli italiani siano incommensurabilmente gravi (quanto la Shoah). Ma il Giorno del Ricordo sempre più si pone come giornata memoriale contrapposta al 25 aprile. L’atteggiamento di quasi tutto lo schieramento politico sembra lasciar credere: se i partigiani, la cui memoria è rappresentata sempre più come “divisiva”, come sostanzialmente solo “comunista”, hanno la loro giornata; anche i fascisti devono averne una. Ma tutto ciò è assurdo, perché capovolge i valori fondanti della nostra Repubblica e della nostra Democrazia. Il fascismo non può avere una giornata commemorativa, perché contro di esso si è costituito il nostro Paese. I fascisti possono essere rispettati come singole vittime ma la loro memoria deve rimanere “di parte”, non può essere un pezzo della memoria nazionale. La memoria delle vittime delle foibe e soprattutto dell’esodo invece deve entrare a far parte della memoria collettiva, ma va letta nel suo contesto storico e geografico, e deve contribuire a raccontare alle nuove generazioni i drammi del nazionalismo, del fascismo e del comunismo stalinista nel Novecento.