Dopo qualche anno scoppiò la rivolta. Dicono che non rimase intatta nemmeno una padella, un pentolone, un piatto. Niente. Gli operai sfasciarono tutto. Anni di umiliazioni, di regole rigidissime, di orari, sirene, cartellini appesi al collo da timbrare a tutti i momenti per controllare ogni spostamento all’interno della fabbrica, esami di sangue settimanali per verificare lo stato di salute e la presenza di parassiti, una dieta a base di deplorevoli hamburger, indigeste pesche sciroppate e disgustosa farina di avena, le costanti vessazioni da parte dei dirigenti, i castighi, le sanzioni per mancata produttività e le deduzioni salariali, gli insopportabili usi e costumi americani: anni di umiliazioni. Bastò l’urlata di un dirigente rivolta a Manuel Caetano de Jesus, l’ennesima esecrazione pubblica. L’ultima. Il refettorio venne demolito, raso al suolo, le cucine pure. La furia operaia si diresse verso il palazzotto dell’amministrazione, gli uffici. In seguito, la centrale elettrica con i generatori di energia per far funzionare le macchine, la falegnameria, i garage, i depositi e perfino la stazione radio, indispensabile e forse unico collegamento con Detroit. Finestre divelte, vetri in poltiglia, l’officina in fiamme, a fuoco gli archivi e il deposito saccheggiato. Quando non c’era più rimasto niente, gli operai distrussero i camion, i trattori e le automobili frutto del loro lavoro. Bastonate ai parabrezza, randellate ai finestrini, sassate ai fari anteriori e posteriori, gomme tagliate e serbatoi bucati. E alla fine le ultime mazzate furono per quei maledetti orologi meccanici coi quali timbravano i cartellini.
I dirigenti, fuggiti nella selva circostante, riuscirono a riparare a Belém, la capitale dello stato del Parà, porta di entrata dell’Amazzonia. James Kennedy telegrafò a New York “Fordlândia è in mano alla plebe”. Henry Ford, venuto a conoscenza del fattaccio, ancora una volta pronunciò la frase che lo rese famoso “i sindacati sono la cosa peggiore apparsa sulla faccia della Terra”. Ma in questo caso si sbagliava, i sindacati non avevano niente a che vedere, la rivolta era stata spontanea. A Fordlândia, la città costruita nella foresta amazzonica, i sindacati non c’erano proprio. Fordlândia non era Detroit. Fordlândia era stata eretta nella foresta da tre anni, per facilitare l’accesso alla materia prima, il látex, il lattice con il quale poter fabbricare guarnizioni e pneumatici. Attraverso la Companhia Ford Industrial do Brasil, vaste aree del territorio amazzonico passarono sotto il controllo diretto di Henry Ford che vi costruì una città dedicata alla fabbricazione delle sue automobili. Presente in Brasile dal 1920, attraverso facilitazioni fiscali e il beneplacito della politica nazionale, cominciava il suo impero. La città di São Paulo, grazie anche all’industria automobilistica, si trasformò rapidamente, da cittadina di provincia a capitale economica del paese. La presenza dei colossi americani ed europei, Ford, General Motors, Volkswagen, determinò le sorti della politica nazionale. Furono loro che imposero lo smantellamento della maglia ferroviaria per favorire l’uso del trasporto automobilistico. Se oggi non c’è uno straccio di treno che leghi le principali città, se oggi ci si muove esclusivamente in corriera, o, chi se lo può permettere, in aereo, lo dobbiamo a loro.
Nel 2009, il presidente Lula, ex operaio, sindacalista e leader dei grandi scioperi che misero in ginocchio la dittatura militare, permise e favorì investimenti miliardari. La Ford navigava in acque sicure, il Brasile cresceva 7% all’anno, e, seguendo gli insegnamenti del vecchio Henry, gli stessi operai potevano comprarsi l’automobile fabbricata col loro lavoro. Ieri a bocca aperta ascoltiamo la notizia: la Ford chiude. Chiude tutto, non tra un anno, sei mesi, un mese. Chiude tutto. A partire da oggi, tutti a casa. Basta, c’est fini. Arrivederci e grazie. Dice il comunicato che la situazione economica, l’incertezza, la svalutazione, la crisi, l’inflazione, la ristrutturazione a livello globale… le solite scuse di sempre. Chiuso. Diecimila operai oggi non sono andati a lavorare. Diecimila operai. Senza contare tutto quello che gira intorno ad una industria così grande: sessantamila posti di lavoro, secondo i calcoli delle centrali sindacali. Dopo lo smantellamento dell’industria petrolifera e navale, dopo il collasso dell’edilizia, dopo la chiusura di migliaia di imprese che non hanno resistito alla pandemia, il Brasile dice addio alla sua politica industriale e concentra le sue forze sul latifondo, figlio del disboscamento e della devastazione ambientale. Il Brasile continuerà ad essere esportatore di materia prima e di commodities agricole: la colonia di sempre. Però, dai, gli ameriKani, dicono che dall’America Latina non se ne vanno: apriamo una fabbrica in Uruguay e manteniamo quella che già esiste in Argentina. Bella roba. La rivolta di Fordlândia nel 1930 venne soppressa dall’intervento dell’esercito, i facinorosi arrestati e prontamente sostituiti, tutto tornò alla normalità, con un piccolo cambiamento: d’ora in poi gli operai sarebbero stati pagati con buoni-spesa da utilizzarsi solamente all’interno del perimetro della città. Fordlândia, la città operaia con quasi cinquemila lavoratori nel cuore della foresta amazzonica venne definitivamente abbandonata nel 1945. Oggi, edifici in rovina, magazzini, macchinari corrosi dalla ruggine, sterpaglia, qualche esiguo turista, caldo e umidità.
Oggi, senza proferire parola, diecimila operai hanno perso il lavoro.