Non sappiamo quale sarà l’esito delle testimonianze che saranno raccolte domani nel processo Gregoretti a Catania, ed in una prossima udienza dovrà essere sentita anche l’attuale ministro dell’interno Lamorgese, che all’epoca dei fatti non rivestiva alcun incarico nell’esecutivo. La partita decisiva si giocherà probabilmente al di fuori delle aule di giustizia, sul piano della comunicazione, ed il senatore Salvini, avvalendosi della schiera di operatori della comunicazione al suo servizio, arruolati nella cd. “bestia” o come battitori liberi, cercherà di passare ancora una volta come una vittima che paga un prezzo personale (il procedimento penale !) per avere difeso i confini nazionali e la sicurezza dei cittadini di fronte al rischio di una invasione di “clandestini”, ormai trasformati in pericolosi untori, se non in terroristi o stupratori. Argomentazioni che negli ultimi mesi sono state rilanciate con un uso massivo dei social, mettendo sullo stesso piano le limitazioni alla libertà di circolazione dei cittadini e dei residenti, imposte dai Decreti del Presidente del consiglio dei ministri (DPCM) per fronteggiare l’emergenza COVID 19, e la cd. “apertura dei porti” a favore dei “clandestini” che sarebbe stata decisa dal nuovo governo, anche se il decreto sicurezza bis del 2019 non è stato abrogato dal nuovo decreto legge immigrazione ed ha subito solo parziali modifiche, peraltro ancora a rischio in sede di conversione del decreto.
Si deve prendere atto che non ci sono stati gli atti di costituzione di parte civile che si potevano attendere da parte di associazioni e delle stesse ONG, con l’eccezione positiva della ONG Open Arms. Ciascun processo e ciascun caso è diverso dall’altro, e non si possono trarre considerazioni generali sul ruolo che (non) ha giocato la società civile nei processi Gregoretti ed Open Arms. Come si dovrà riflettere a lungo sulle prospettive dei soccorsi in mare ai tempi del COVID 19, dopo che il governo italiano ha dimostrato di insistere nella politica dei fermi amministrativi. Perché ormai appare evidente che con la sequenza di “fermi amministrativi” non si tratti di una serie di singoli atti amministrativi adottati da diverse capitanerie di porto, ma di una precisa linea politica concordata evidentemente a livello di governo, ed attuata dalle diramazioni locali del Ministero delle infrastrutture su navi che sono già certificate dai paesi di bandiera che hanno sistemi di controllo anche più rigorosi di quelli in uso nei porti italiani. Sarebbe davvero interessante sottoporre agli stessi controlli le navi traghetto che collegano al continente le isole italiane o i piccoli cargo che fanno la spola tra Malta ed i porti italiani. Nel diritto internazionale non esiste una categoria o una classificazione uniforme di “navi di soccorso” destinate stabilmente ed esclusivamente ad attività di ricerca e salvataggio, e questa destinazione d’impiego non può essere strumentalizzata dalle autorità di uno stato per limitare l’operatività di mezzi che possono salvare la vita, come hanno fatto in passato, a decine di migliaia di persone. Chiunque voglia cimentarsi ancora nel soccorso in mare di naufraghi nel Mediterraneo centrale dovrà però adottare mezzi adatti a lunghe navigazioni d’altura senza scalo, sistemi di comunicazione in tempo reale per gestire un rapporto costante con l’opinione pubblica e con i finanziatori, e promuovere con immediatezza subito dopo i soccorsi tutte le iniziative legali che sono esperibili in base agli ordinamenti nazionali ed internazionali quando gli stati violano gli obblighi di ricerca e salvataggio imposti dal diritto internazionale e dai codici della navigazione.
Come giuristi e operatori dell’informazione possiamo solo ripetere che non ci limiteremo ad attendere il pronunciamento dei giudici su casi che appartengono ormai ad una fase storica definitivamente archiviata, sia per l’irrompere della Pandemia da Covid 19 in tutti i paesi del mondo, che per la situazione profondamente mutata nel Mediterraneo, dopo l’avanzata della marina turca in Libia ed il sostanziale fallimento delle attività di law enforcement affidate nel Mediterraneo centrale alla missione europea Irini di EUNAVFOR MED. Occorre rendere consapevole l’opinione pubblica della situazione ancora confusa in Libia, di scontro strisciante, sul territorio ed in mare, tra l’esercito di Haftar (LNA) e le milizie ancora alleate al generale e le forze fedeli a Serraj ( GNA) , con il contorno di sequestri di pescherecci che ha coinvolto anche la marineria “multietnica” di Mazara del Vallo. Una realtà che molti nascondono e troppi, ancora, sottovalutano, dando esclusiva priorità ai rapporti commerciali a scapito del rispetto dei diritti umani. Come sembra stia diventando la regola nei rapporti internazionali, ancor di più in questa fase pandemica.
Non si può accettare in definitiva la tesi che la natura “politica” delle scelte di singoli membri dell’esecutivo, come i ministri dell’interno, cancellino i diritti umani dei migranti ed ogni profilo di responsabilità. Responsabilità che, anche se non ritenute rilevanti nei giudizi di taglio penalistico a livello nazionale, possono tuttavia incardinare valutazioni di condanna davanti alle giurisdizioni internazionali, o nell’ambito dei lavori di un tribunale di opinione espressione della società civile come il Tribunale Permanente dei Popoli (TPP). I seminatori di odio hanno utilizzato la materia dei soccorsi in mare per fare crescere il loro consenso elettorale. Adesso, di fronte al disastro sociale che hanno prodotto, ed alle centinaia di vittime nel Mediterraneo che sono conseguenza delle loro politiche di governo o dei loro ricatti su governi deboli e divisi al loro interno, non rimane altra via che la denuncia puntuale non solo degli atti di abbandono in mare, ma anche di tutte le pratiche di esclusione sociale che in tempi di pandemia dai migranti si vanno estendendo alle fasce più deboli della popolazione. Solo a partire da una nuova forma di aggregazione di consenso dal basso verso i valori della solidarietà e dell’uguaglianza tra gli uomini, si potrà dare nuovo impulso alle attività di ricerca e soccorso in mare, attività che dovranno comunque essere svolte principalmente dagli stati, con un ruolo complementare e non sostitutivo delle organizzazioni non governative. Almeno fino a quando la politica internazionale non sarà in grado di garantire canali legali di ingresso e ridurre, se non eliminare, le ragioni che spingono un numero crescente di uomini, donne e bambini a lasciare il loro paese.