Di Lidia Menapace (Novara, 3 aprile 1924 – Bolzano, 7 dicembre 2020) non è semplice, oggi, scrivere: non solo perché questa scrittura non può prescindere dallo sforzo, esigente e necessario, della distanza, uno sforzo duro, quando si sono condivise iniziative e si è militato, per anni, nella medesima formazione politica; ma anche perché questa scrittura si compone di una quantità di vicende e storie, anche queste da inserire in una narrazione più complessiva, e di una messe di figure e ruoli, che alimentano una biografia poderosa e ricchissima. In questo momento di dolore condiviso, a poche ore dall’avere appreso la notizia della scomparsa, queste riflessioni e quelle premesse servono a delineare un profilo di prima approssimazione della figura grande, storica e politica, umana e civile, di Lidia Menapace: la figura di una donna che ha, letteralmente, scritto pagine di storia del Novecento italiano, una figura di primo piano della storia del nostro Paese, che si svolge, per lo meno, dalla seconda guerra in avanti.
Non che ciò che c’è stato prima della guerra non sia stato decisivo, per alcuni aspetti, determinante, nella lunga vicenda della sua formazione politica: nata a Novara nel 1924, la sua è stata una formazione cattolica, e conseguì la laurea, nel 1945, in letteratura italiana, con il massimo dei voti e un commento, da parte di uno dei relatori, che lei stessa non avrebbe mancato di ricordare, più volte, anni dopo, quando, nel valutare il suo lavoro di tesi, quegli reputò il suo lavoro «frutto di un ingegno davvero virile»; al che lei, prontamente, con lo spirito dei 21 anni e una coscienza precorritrice dei tempi e degli eventi, ribatté; finendo così per suscitare un ulteriore commento inappropriato da parte del correlatore, che richiamò il fatto che fosse, in tutto e per tutto, «donna» e quindi «isterica». È un primo tratto della figura grande di Lidia Menapace, su cui torneremo, ma che, a questa altezza, è possibile sintetizzare con poche parole: dignità, fermezza, coscienza femminile, un aspetto determinante del suo assoluto rigore e della sua lunga militanza, femminile e femminista.
La sua formazione cattolica determinò gli esordi della sua partecipazione alla vita pubblica ed istituzionale dell’immediato dopoguerra nelle file della Democrazia Cristiana: si impegnò nei movimenti cattolici e, in primo luogo, nella FUCI, la Federazione Universitaria Cattolica Italiana; una volta trasferitasi in Sud Tirolo (Alto Adige), fu eletta, con la Democrazia Cristiana, nel Consiglio Provinciale, ed entrò in Giunta Provinciale nel 1964. Anche in questo caso fu precorritrice: ebbe l’incarico di assessora alla Sanità e fu la prima donna a entrare nel Consiglio (con Waltraud Gebert Deeg) e nella Giunta Provinciale. Siamo tra la metà degli anni Cinquanta e la metà degli anni Sessanta, lo stesso tempo nel quale Lidia Menapace “combina” l’attività politica e istituzionale con l’impegno intellettuale e accademico; proprio in quel frangente, infatti, all’inizio degli anni Sessanta, aveva iniziato a insegnare all’Università, come Lettrice di Lingua italiana e Metodologia degli studi letterari, presso la prestigiosa Università Cattolica di Milano, una testimonianza anche questa, a suo modo, esemplare di un aspetto che sarebbe poi finito un po’ in secondo piano, nella sua biografia, dove sempre più avrebbero occupato la scena il suo impegno pubblico e la sua militanza politica, ma che non di meno rimane importantissimo, nella memoria della sua vita, vale a dire il suo impegno, colto e acuto, di intellettuale.
Una intellettuale in cui la formazione cristiana accompagnò il suo orientamento comunista, fatto, questo, che segnò anche la fine della sua vicenda accademica: fu sostanzialmente cacciata dall’Università all’indomani della pubblicazione del suo lavoro dal titolo «Per una scelta marxista». Di lì a poco (1969) fu tra i fondatori e le fondatrici del Manifesto, su cui avrebbe scritto regolarmente fino a tutti gli anni Ottanta, lasciando quindi la Democrazia Cristiana (1968) e costituendo con altri e altre i “Cristiani per il Socialismo” nel 1973. Comunista già lo era: Lidia Menapace, e questo è un aspetto noto della sua biografia, è stata una delle protagoniste della Resistenza e della Liberazione, staffetta partigiana con il nome di battaglia “Bruna”, decorata con il grado di sottotenente, che rifiutò, non solo perché non aveva fatto la guerra come “militare” (e avrebbe sempre confermato il suo impegno e la sua militanza, al tempo stesso, pacifista e antimilitarista) ma anche perché, come per tutti i partigiani e tutte le partigiane, non solo in Italia, ma in tutti i fronti dell’antifascismo e della liberazione del continente europeo, la Resistenza non poteva avere prezzo in moneta. Si compone così un altro pezzo del mosaico brillante e colorato della sua vita: intellettuale e femminista, comunista e pacifista.
Lidia Menapace continuò poi ad attraversare il lungo “secolo breve” da protagonista assoluta: le battaglie sui versanti del femminismo e del pacifismo, l’impegno nell’ANPI, l’ingresso in Rifondazione Comunista, partito con il quale fu eletta in Senato nel 2006, diventando così, in quella breve e travagliata legislatura, senatrice, a ottant’anni compiuti, sino al 2008, diventando componente della Commissione Difesa, e, tra il 2007 e il 2008, presidentessa della delicatissima Commissione di inchiesta sull’uranio impoverito. Non solo: nei primi scrutini per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica (maggio 2006) ottenne in aula alcuni voti. È stata, tra i mille eventi della sua vita, anche direttrice della rivista teorica per la rifondazione comunista «Su la testa» (che ancora, con un diverso layout, si pubblica). Ed è stata, soprattutto, una grande studiosa e lettrice di Rosa Luxemburg, una delle figure storiche del movimento operaio e comunista, senza la cui lezione non tutto si capirebbe della storia e della vicenda, lunga e importante, di Lidia Menapace. Un messaggio da preservare per le generazioni presenti e future: comunista, antifascista, pacifista, antimilitarista, femminista.