“Ci sono donne che lottano un giorno e sono brave, altre che lottano un anno e sono più brave, ci sono quelle che lottano più anni e sono ancora più brave, però ci sono quelle che lottano tutta la vita: esse sono le indispensabili.”
(Liberamente tratto da Bertolt Brecht)
Intervisto Luisa Morgantini il 13 dicembre e le chiedo di iniziare da qui. Eri a Milano quel 12 dicembre 1969. Che cosa ricordi?
Il clima di Milano era straordinario. Nel pieno dell’autunno caldo io lavoravo al sindacato metalmeccanico, alla FLM, c’erano scioperi e lotte quotidiane. Operai e studenti uniti nella lotta. La bomba di piazza Fontana e l’assassinio di Pinelli sono indelebili nella mia memoria; ricordo come scendevamo in piazza, come invademmo il Palazzo di Giustizia cantando la ballata di Pinelli. Già allora si parlava di “strategia della tensione”.
Torniamo indietro. Raccontami le tue origini
La mia “militanza” è iniziata molto presto: a dieci anni sono stata con mia madre per mesi nella fabbrica tessile occupata, a undici ero nei pionieri del Partito Comunista nella valle dell’Ossola dove sono nata nel 1940. Mio padre era partigiano nella Brigata Garibaldi. Ho ricordi vivi di allora, anche se lui non ci teneva a raccontarmeli. Mi diceva: “La guerra è brutta da qualunque parte la si faccia.”
Quando sono cresciuta ho deciso di lasciare quella valle. Avevo fatto solo le scuole “commerciali” e volevo rompere le montagne che la circondavano, scappare, capire chi ero e vedere oltre. Volevo la libertà, non essere condizionata e scoprire il mondo. Leggevo qualsiasi cosa mi capitasse; diffondendo l’Unità alla domenica avevo letto un articolo dove si parlava di Bologna, “città dotta e comunista”. A diciotto anni decisi di partire. Mia madre mi chiuse in casa, ma riuscii a scappare con l’aiuto di mio fratello più piccolo con 10.000 lire in tasca datemi da due operai della Sisma.
Presi il treno per Bologna, dove mi presentai alla Camera del Lavoro, facendo una certa impressione: una ragazzina con i capelli cortissimi, blue jeans che ancora non si usavano. Pesavo 47 chili, ero solo naso e occhi, forse un po’ spiritata. Chiamarono la Camera del Lavoro di Novara, con cui avevo collaborato e loro confermarono: “Si, la Morgantini è un po’ matta, ma è intelligente…” Così mi diedero un lavoro all’Inca Cgil e cominciai a conoscere il mondo. Ero comunista, avrei potuto iscrivermi alle superiori, ma la scuola era borghese, la vera scuola erano le strade, i compagni, gli operai, le fabbriche, le osterie.
I primi mesi abitai da una signora della “protezione della giovane” che affittava stanze, ma dopo un po’ mi buttò fuori perché leggevo “I fiori del male” di Baudelaire e tornavo a casa tardi. Era un’ipocrita e ci faceva pagare settemila lire a testa, quando a quel tempo ne guadagnavo 27 mila. Ma scacciarmi fu positivo: con alcuni amici e una coppia, lei nordamericana, abbiamo formato una Comune molto politicizzata, leggevamo il Capitale di Marx. Gli altri erano studenti o artisti, io facevo una fatica enorme a seguire quelle letture, spesso usavo il vocabolario per capire le parole. Fu un’esperienza straordinaria, che purtroppo si concluse per questioni di amore e tradimenti della coppia.
Poi c’è stato l’impegno nel Partito Comunista e nel sindacato…
Sì. Ero attiva nel Partito Comunista; mi proposero per la scuola di partito alle Frattocchie, una bellissima villa sui colli laziali, dove rimasi sei mesi. C’era una grande disciplina e un bisogno di studiare e di approfondire enormi. Studiavamo storia ed economia dalle 9 di mattino alle 5 di pomeriggio. Alla sera si cantava nelle osterie. Quell’esperienza andrebbe recuperata, magari introducendo elementi più libertari. Rientrata a Bologna cominciai a star stretta dentro al partito: la linea di Ingrao che seguivo era stata sconfitta, c’era il Vietnam e ci si divideva.
Alla fine sono uscita dal partito e sono entrata in una crisi esistenziale fortissima. Avevo 26 anni, non parlavo più e non sopportavo le parole. Volevo partire per Cuba con un amico dell’Ossola; invece fu un articolo che raccontava delle lotte dei sindacati in Inghilterra che mi appassionò e decisi di andarci. Non sapevo una parola di inglese, ma per una serie di coincidenze mi ritrovai a tenere corsi di italiano al Technical College di Cambridge (la divisione in classi era talmente forte che siccome vivevo con italiani che erano tutti al college, davano per scontato che io fossi laureata!!). Mi feci mandare una grammatica italiana, ma era troppo complicata, così decisi di conversare, discutere, portare tematiche vive nell’aula, dai movimenti, alle droghe, al Vietnam. Univo poi pastasciutte con gli studenti; fu un successo, un periodo molto bello, in cui imparai molto. In seguito mi formai al Ruskin College di Oxford, una scuola “socialista” stile Umanitaria di Milano, un ponte tra i poveri e l’università. Ebbi molta fortuna.
Tornai in Italia e scelsi Roma e il sindacato. Io volevo entrare nella FIOM, quella era la mia “appartenenza”. Invece trovai lavoro all’Umanitaria di Milano facendo formazione sindacale. A quel punto il mio riferimento era la FIM Cisl, che in quel periodo era molto combattiva e contribuì a trasformare il sindacato italiano. Da lì a poco arrivò l’autunno caldo e le lotte si fecero continue.
Insomma dall’ottusità piemontese mi aveva salvato la pazzia della mia mamma romagnola, con la quale poi avevo ricucito e che quando andavo a trovare mi preparava i miei piatti preferiti.
A Milano sono rimasta fino all’85, con un intervallo straordinario di un anno, il 1980, passato in Irpinia in un piccolo paese terremotato, Teora. Ero partita per stare una settimana e vi rimasi un anno, vivendo in una roulotte. Facemmo di tutto, dal seppellire i morti a montare una cooperativa di donne, a formare comitati popolari.
Video: https://fb.watch/1ZarN6J74X/
Le lotte degli anni ’70 sono state potenti e indimenticabili, soprattutto a Milano, con la riscossa e la conquista dei diritti… Non ho mai avuto il mito della classe operaia, per me la classe operaia erano mio padre e mia madre, le persone del mio paese, non erano idealizzate, erano in carne ed ossa con pregi e difetti. Già allora avevo maturato una cultura della nonviolenza e più di una volta mi sono messa in mezzo agli scontri con le braccia alzate.
Con la crescita della repressione e del terrorismo tutto si fece più complicato, non eravamo più liberi di lottare, venivamo subito accusati di essere terroristi. Sono anni sui quali dovremmo tornare a riflettere, fu un periodo complesso. Anche il femminismo fu fondamentale: ha scosso i movimenti, portato a galla le discriminazioni di genere, aperto le porte del mondo.
Nel sindacato mi hanno eletta nella segreteria di Milano, un evento in un sindacato maschile. Credo portassi anche un modo diverso di agire: non rispettavo le gerarchie, nelle trattative, per esempio alla Borletti, chiedevo il parere di tutti, anche dell’ultimo delegato, volevo che tutti partecipassero. Il fatto che fossi donna qualche volta poneva dubbi sulla mia capacità di trattare. Una volta un delegato mi ha detto: “Ti ho sognata, eri in mezzo alla trattativa con gli industriali, discutevi, ma avevi le tette di fuori senza rendertene conto e io cercavo di coprirti.”
Parlaci delle esperienze internazionali cominciate negli anni Ottanta
Ormai il sindacato per me era finito, non era più un’esperienza di lotta e cambiamento. Ho continuato a lavorarci, ma a Roma, nella sezione internazionale. Già a Milano con la Flm ero impegnata nei movimenti di liberazione in Africa e America Latina. Il Nicaragua con la sua rivoluzione suscitava le speranze in una terza via, una sintesi tra cristianesimo e comunismo. E poi il no agli armamenti e il tentativo di riconvertire le industrie belliche. Ho scoperto la Palestina soprattutto dopo Sabra e Chatila nell’82 e in quel momento sono come impazzita. Ricordo che c’era il campionato di calcio e tutti erano altrove, io ero sola nella sede del sindacato a sentire via radio queste corrispondenze tragiche. Abbiamo subito lanciato manifestazioni e iniziative. Da lì il mio impegno con il popolo palestinese è stato un crescendo. Nell’87 abbiamo dato vita a Bari all’Associazione per la Pace con una grande assemblea, un’idea di Luciana Castellina. Nell’88 in seguito alla prima Intifada è nato il gruppo delle Donne in nero, contro la violenza e contro le guerre, con donne israeliane e palestinesi. In quegli anni il movimento pacifista era forte e si batteva contro tutte le guerre, dalla prima guerra del Golfo alla ex Jugoslavia.
Sei stata anche al Parlamento Europeo…
Fausto Bertinotti, che conoscevo dal sindacato, e Giuliano Pisapia hanno insistito perché mi candidassi. Io non ci avevo mai pensato. E invece funzionò: venni eletta come indipendente nelle liste di Rifondazione. Furono anni importanti, dal 1999 al 2009. Lavorai tantissimo. Spesso le istituzioni cambiano le persone; io non sono cambiata, ma certo non sono riuscita a cambiarle… Ho mantenuto stretti contatti con i movimenti, con la Palestina, l’Afghanistan, i kurdi, i turchi.
Nel 2007 sono stata eletta Vicepresidente del Parlamento Europeo, presentata dal gruppo della sinistra e verdi nordici; presi molti voti, alcuni anche da persone del Partito Popolare. Lavorai trasversalmente, con tutti, tranne che coi leghisti; quelli no, non li sopportavo. Tentavo di parlare con tutti, cercando le persone più sensibili anche in altri gruppi e ne ho coinvolti molti su questioni che fino ad allora per loro erano lontane. Il Parlamento era un pullulare di iniziative sui diritti, la pace, le donne, la cooperazione internazionale. Un’israeliana e un palestinese sono stati insigniti del Premio Sacharov. Ho organizzato e accompagnato molte delegazioni, viaggiando in zone di conflitto. Penso che il mio approccio sia stato importante: non puntavo il dito accusatore, ma coinvolgevo me stessa e anche loro nelle responsabilità.
La Palestina è per te una questione centrale
In effetti c’erano molte speranze e invece nel 1993 siamo finiti con gli accordi di Oslo, che sono stati una trappola formidabile per i palestinesi. Io ero già fortemente scettica rispetto a quella soluzione, ma ricordo che dicevo ad Arafat come l’esperienza sindacale mi avesse insegnato che dopo un accordo bisognava comunque lottare per applicarlo. E invece la dirigenza, una volta firmato, si è adagiata. Il vero problema è che la comunità internazionale, l’Europa e l’ONU sono complici dell’occupazione militare e della colonizzazione della Palestina. Non hanno mai osato imporre sanzioni a Israele per la violazione dei diritti umani e del diritto internazionale. L’ Olocausto viene strumentalizzato e usato per impedire ogni critica allo Stato di Israele. Chi lo critica diventa antisemita e gli ebrei critici vengono accusati di odiare gli ebrei.
In questi ultimi anni è stato un crescendo di colonizzazione, di furto della terra e dell’acqua, di espulsioni e di una politica di apartheid. E’ drammatico, tragico e ogni volta di più mi vergogno nell’incontrare i palestinesi, che sono sempre più stremati. In questi ultimi anni giovani e non solo dei comitati popolari per la resistenza nonviolenta si sono organizzati per lottare contro il muro e difendere la loro terra. Quello che i palestinesi ci chiedono è: “Parlate di noi! Raccontate, la verità, sosteneteci…” Anche a livello culturale sono sorprendenti: continuano a inventare, hanno una capacità straordinaria di continuare a creare, anche a Gaza dove da anni vivono sotto assedio. Dicono semplicemente: “Vogliamo essere liberi! Abbiamo diritto alla libertà!” E invece sono abbandonati, da noi, dai paesi arabi. A Gaza sono bloccati non solo da Israele, ma anche dall’Egitto.
Abbiamo perso troppe persone care: ricordo su tutti un giovane palestinese che chiamavamo affettuosamente l’Elefante perché era grande e grosso. Veniva alle manifestazioni col suo aquilone, l’hanno colpito allo stomaco con un lacrimogeno ed è morto.
Io vado avanti e continuo a credere che valga la pena cercare di creare un mondo migliore. Ho da poco compiuto 80 anni e Luciana Castellina mi ha detto: “Fino a 90 anni ce la si fa bene, poi le cose si complicano…”
Qui a Supino, in Ciociaria, ho dato vita al centro Bab al Shams, che vuol dire la Porta del sole, titolo di un libro dello scrittore libanese Elias Khoury sulla tragedia della Nakba. E’ anche il nome di un villaggio di tende – nato in una notte – a cui hanno dato vita i comitati popolari palestinesi nella valle del Giordano per impedire la crescita delle colonie, distrutto dai soldati israeliani sei giorni dopo. A Supino ho trovato delle case intere che costavano pochissimo, 4.500, 5.000 e 8.000 euro. Non avevo mai avuto una proprietà, le ho comprate e le usiamo come AssoPacePalestina per organizzare incontri, dando ospitalità a bambini e giovani palestinesi e italiani e alla rete dei comitati popolari. Abbiamo accolto anche le Sardine per la loro Scuola di Politica, Giustizia e Pace. E’ faticoso, ma è bello costruire comunità impegnate nella solidarietà e nella lotta contro le ingiustizie. Ce la faremo.
Le foto provengono dall’archivio di Luisa Morgantini, che ringraziamo per averle messe a disposizione.