Ho guardato in queste lunghe ore – fra incontri virtuali, letture di libri scovati in cartoni accantonati da più di 10 anni, partite a scacchi giocate coi nipoti a distanza e rare chiacchierate con immancabile mascherina – un film che temevo di dover giudicare come puramente elogiativo, financo fuori misura. Tutto il contrario. Il lungo documentario sulla resistenza di Greta Thunberg alla benevola condiscendenza del padre, al compatimento delle anziane borghesi svedesi che la invitavano a tornare a scuola, alla durissima traversata dell’Atlantico in barca a vela, riesce nell’intento di sottolineare assai più l’intransigente dedizione della ragazzina alla causa del cambiamento climatico, di quanto celebri l’indubitabile successo mondiale, fatto di ipocriti trionfi nelle aule dei poteri, ma anche di festose manifestazioni di massa, che squarciano l’isolamento in cui Greta si relega per scelta e, credo, per maggior “purezza” di testimonianza. Il filmato – I am Greta su regia di Nathan Grossman, scaricabile a pagamento da https://www.miocinema.it/film/i-am-greta/ – mima la determinazione di un Davide di fronte ad un Golia tanto inumano, quanto risulta imperturbabile di fronte agli annunci della scomparsa della propria specie.
Ci si rende conto, soprattutto nell’immersione dentro la traversata insopportabilmente lunga e irritante dell’oceano, che la missione di spezzare il fronte del negazionismo, sempre richiamata dal comportamento testardo e dalle scarse emozioni esternate dall’interprete, vince la noia di immagini sempre sospese fra le trecce di una bambina e un pelo di onde inesorabilmente grigie e battute dal vento. Ritrovo una capacità di trasmettere un senso di comunanza fra essere umano e natura simile a quanto avviene nelle descrizioni di alcune culture animiste o, se volete, in alcune pagine di esortazione della Laudato Sì di papa Francesco.
Sembra di veder rappresentata una impresa umana in cui, nonostante l’impiego continuo di tecnologie, tutto si mostra interconnesso e in uno scenario possibile di patto, di convivenza – anziché di dominio – con la natura. Così l’accoglienza festante a Manhattan della barca a vela piegata dal vento ha il sapore degli approdi dei migranti che riponevano le loro speranze nel lasciare definitivamente il vecchio mondo. E risulta decisivo che la protagonista sia indubitabilmente una donna.
Chissà se un’attenta rivisitazione di questi giovani – ripresi a tratti nel film – che scioperano per reclamare un sapere diverso e strumenti (per un’interpretazione adeguata alla drammaticità della realtà in cui vivono) avrà un effetto importante e a livello di massa, dopo la pandemia e quando le loro forze si potranno di nuovo mostrare in tutta la pienezza di vitalità che si è dispiegata la primavera scorsa. Questo film cerca di rilanciarne il ruolo nel futuro, oltrepassando il pessimismo che la prova del coronavirus ha sparso in lungo e in largo nel pianeta.
Il distacco da casa e da scuola di Greta appare una metafora positiva di cosa occorra all’umanità per non tornare a “prima”. Una rottura che si nutre della contraddizione fra la durata inconsueta della crisi in corso e la velocità incessante degli adattamenti cui il mondo artificiale costringe quello naturale e che dovrebbe portare a dichiarare il fallimento del modello economico dominante. Assistiamo invece al perpetuarsi di un sistema ignaro delle persone e dei corpi, cui non basta ormai una sola Terra e in cui i poteri eludono le ribellioni e stremano ogni alternativa con la forza dell’esclusione, arma ancor più letale dello sfruttamento.
Questo film mi ha richiamato alla mente un passo di un libro scritto collettivamente dal titolo Niente di questo mondo ci risulta indifferente. Quelle frasi che riporto a memoria, potrebbero scorrere sul finale di I am Greta: «Se partissimo da noi stessi, dai territori che abitiamo, dalla consapevolezza della forza e della bellezza dell’umano, del vivente, di una Terra fragile fatta da particelle in movimento e circondata da una sottile pellicola di atmosfera, e facessimo contemporaneamente un uso appropriato delle più attuali interpretazioni scientifiche della realtà che ci circonda, coniugandole in partecipazione e conoscenza comunitaria, saremmo meglio attrezzati per sostenere la difficile prova che abbiamo di fronte». Ovviamente, ci dovremmo mettere il cervello e la faccia. Hanno cercato di farcelo capire un papa e una ragazzina…