Il 18 dicembre si celebra in tutto il mondo la “Giornata internazionale per i diritti dei migranti”, istituita nell’anno 2000 dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale sull’adozione della “Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie (International Convention on the Protection of the Rights of All Migrant Workers and Members of their Families)” approvata esattamente dieci anni prima a New York con la Risoluzione A/RES/45/158.
Il testo, composto di novantatré articoli che riconoscevano la specifica situazione di vulnerabilità dei lavoratori e delle lavoratrici migranti e promuoveva, attraverso misure contraddistinte più dai limiti che dall’incisività, il miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita nel rispetto della dignità umana, fu approvato il 18 dicembre del 1990 dall’Assemblea delle Nazioni Unite dopo un intenso lavoro di mediazione il cui elemento scatenante era stato, all’epoca, associato all’incidente del Monte Bianco risalente al 1972. In quell’anno, un camion che avrebbe dovuto trasportare macchine da cucire rimase coinvolto in un incidente sotto il tunnel del Monte Bianco. Nascoste all’interno del camion, da molti giorni, c’erano ventotto persone originarie del Mali che viaggiavano verso la Francia alla ricerca di un lavoro e persero la vita nel corso dell’incidente.
La discussione che si aprì in seno alle Nazioni Unite permise l’istituzione di un gruppo di lavoro che nel 1990 si occupò della stesura della bozza di Convenzione. Tuttavia, la sua ratifica e, dunque, l’effettiva entrata in vigore, risale soltanto all’anno 2003 e fu possibile soltanto grazie alla firma del Guatemala che permise di raggiungere il numero minimo di ratifiche previsto per l’attuazione. Tra questi paesi, il dato allarmante è, però, quello dei mancati firmatari: nessun paese membro dell’Unione europea ha ratificato, a oggi, la Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie.
Negli ultimi trent’anni, quella che nel 1972 veniva recepita come una tragedia, ovvero la morte di 28 persone in cerca di una vita migliore, spesso conquistata superando ogni limite alla degradazione umana e prostrandosi a condizioni di moderna schiavitù anziché di lavoro, proprio nei Paesi colonizzatori come nel caso delle vittime originarie del Mali, uno dei paesi ridotti in stato di povertà proprio dalla Francia anche rispetto alle altre colonie a discapito delle enormi ricchezze minerarie e culturali di origine, si è brutalmente trasformata in una routine accettata come normalità. Ampie fasce dell’opinione pubblica dei paesi occidentali e delle ex colonie, incluse talvolta persino le nuove cittadinanze di seconda e terza generazione, digeriscono con velocità crescente e sempre più preoccupante le notizie che criminalizzano le persone migranti o ne narrano morti atroci che potrebbero essere evitate, fino a normalizzare l’ecatombe che insanguina da anni il Mar Mediterraneo e viene descritta ripetutamente con termini altisonanti come “la più grande tragedia” entrati nell’uso comune relativo anziché in quello assoluto, nonostante il rinnovato sensazionalismo, e trasformati in macabra regolarità.
La Convenzione la cui esistenza, ma totale inefficacia, si celebra in data odierna e la mancata ratifica da parte dei paesi membri dell’Unione europea è significativa rispetto alle disposizioni riguardanti le violazioni della legislazione in materia di migrazione nonché divieti, tra cui quello riguardante l’espulsione collettiva, che dovrebbero essere prassi acquisita nella loro dimensione generica e risultano, invece, baluardi sempre più lontani da una dimensione di garanzia sancita dallo stato di diritto.
Le stesse condizioni lavorative generali delle società contemporanee poggiano su tutele sempre più fragili tanto da esporre tutte le categorie meno privilegiate, a partire dalle persone migranti, a condizioni di sfruttamento e schiavitù, come dimostrano i recenti casi di caporalato che conquistano l’attenzione dell’opinione pubblica e dei mezzi di comunicazione tradizionale solo a fronte di casi eclatanti, come ad esempio il caso della start up milanese caso “StraBerry” o quello di “Uber Italy”, pur inserendosi nel solco di una tradizione consolidata e sempre più radicati in Italia e in molti altri paesi del territorio dell’Unione europea, da Saluzzo a Forlì, da Rosarno a Latina, da Foggia a Brescia.
Non aggiunge alcuno spiraglio di luce, purtroppo, in tale scenario di stasi – quanto non di vera e propria regressione – sul piano giuridico, politico e sociale, la proposta presentata dalla Presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, lo scorso 23 settembre 2020 ancorata all’adozione di quello che è stato definito un (nuovo) “Patto per le Migrazioni e l’Asilo” e fa un largo uso di termini chiave quali “responsabilità”, “solidarietà” e “approccio globale”. Da un’attenta lettura, però, di “nuovo” e di “globale” emerge principalmente la linea dura e ancor più esplicita rispetto al passato sulla dimensione esterna delle politiche migratorie finalizzate prevalentemente al contrasto dei flussi migratori verso l’Unione europea, limitando oltremodo l’accesso a una protezione legale effettiva e ignorando qualsiasi approccio comune e condiviso in materia di libera circolazione e supporto nella ricerca – nonché necessità, anche per i Paesi riceventi – di opportunità di lavoro, studio e formazione (a parte un generico ed alquanto elitario riferimento all’attrazione di talenti oggetto di un pacchetto apposito definito “Skills and Talent Package”) e delle garanzie a queste legate nel rispetto dei diritti umani e delle norme e libertà fondamentali come sancite nei trattati internazionali e in quelli che regolano il funzionamento della stessa Unione europea.
Tale scenario è aggravato dagli elementi che contraddistinguono la gestione della pandemia e della conseguente crisi economica e sanitaria in maniera sempre più frammentata, particolarista e centrifuga rispetto a qualsiasi tentativo di coordinamento e armonizzazione per il bene della cittadinanza a livello mondiale. Pur di fronte a una situazione universale come quella sanitaria, le posizioni assunte dai Governi degli Stati Membri dell’Unione europea, Italia compresa, confermano in misura ancora maggiore tale impegno e determinazione nel restringere l’ambito dei flussi migratori, ovvero il movimento naturale inscindibile dalla storia del globo terrestre e delle sue popolazioni, nessuna esclusa, e gli ingenti investimenti economici finalizzati a inasprire le misure nei confronti di coloro che migrano per ragioni di necessità favorendo e finanziando politiche di respingimento e narrative a questo associate, anziché tutelare il diritto alla vita e riconoscere il contributo positivo essenziale assicurato dai lavoratori migranti alla crescita e allo sviluppo dei paesi occidentali, dal punto di vista culturale così come sul piano economico, spesso a scapito della loro stessa esistenza, dal 1972 a oggi.