L’accordo di pace siglato nel 2016 tra il Governo colombiano e le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC) aveva acceso nelle popolazioni indigene, in quelle di origine africana e nelle comunità contadine la speranza di poter vivere in pace nei propri territori una volta per tutte.
Tuttavia, il nuovo governo di Iván Duque non ha rispettato pienamente la propria parte di accordo e, lungi da includere le aree abbandonate dalla guerriglia nella vita istituzionale del Paese, il risultato finale è stato che queste ultime sono state abbandonate a se stesse.
I gruppi paramilitari adesso sono liberi di farsi la guerra per il controllo del territorio e di assassinare i leader sociali come metodo per soggiogare la popolazione rurale. Oltre alle mine antiuomo e al confinamento forzato, i massacri sono diventati un ulteriore sistema per esercitare pressione nel 2020.
Nella storia della politica colombiana l’omicidio, la minaccia e il trasferimento forzato delle persone sono diventati gli strumenti con cui alcune classi sociali connesse al potere economico legittimano e stabiliscono un determinato modo di organizzare il paese, le leggi che regolano la proprietà terriera e i meccanismi per ottenere il controllo delle risorse del sottosuolo.
Nel XIX e XX secolo la guerra è stato il mezzo con cui è stata forgiata un’idea di nazione, mentre i grandi possedimenti agricoli e zootecnici sono stati fondati sul sangue e il fuoco, sia sotto forma di ampi possedimenti terrieri che di aziende agricole.
Questo meccanismo violento è stato imposto anche per controllare e saccheggiare le foreste, sfruttando aree ricche di minerali e risorse energetiche e favorendo lo sviluppo di progetti su larga scala.
L’attuale politica agricola del governo e il conseguente assestamento delle élite governative sono state realizzate attraverso l’espulsione delle popolazioni che vivevano nelle valli interandine, nelle selvagge pianure caraibiche e nella pianura e l’area pedemontana amazzonica. Coloro che in precedenza controllavano e possedevano questi territori erano le popolazioni indigene, quelle di origine africana e i contadini meticci.
La persecuzione e l’assassinio dei capi indigeni che sta avendo luogo attualmente in Colombia devono essere visti all’interno di questo contesto e in una dinamica di esclusione e violenza perpetrata nel tempo.
Secondo la Valutazione generale delle violazioni dei diritti umani e dei reati contro i popoli indigeni, circa 9148 capi indigeni sono stati assassinati nel periodo 1985-2017 perché avevano cercato di realizzare i loro progetti culturali: la difesa del territorio, l’esercizio dell’autonomia, l’applicazione della giustizia e la difesa dei diritti delle donne e dei bambini di fronte a gruppi armati.
Questo documento, realizzato dalla Commissione per i diritti umani dei popoli indigeni, prende il 1985 come punto di riferimento in quanto è l’anno stabilito nel Trattato di Pace tra il governo della Colombia e le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC) come inizio di un nuovo momento. A partire da quella data alle vittime di guerra sarebbe stato riconosciuto il diritto ad un risarcimento, il diritto alla verità riguardo gli obiettivi e le motivazioni di chi ha partecipato alla guerra, e il diritto di consegnare alla giustizia coloro che sono stati identificati come carnefici.
Il continuo assassinio dei leader indigeni
Il Rapporto del Registro Speciale dei Leader e dei Difensori dei Diritti Umani Assassinati dopo la Firma del Trattato di Pace, redatto dalle organizzazioni Indepaz, Cumbre Agraria e Marcha Patriótica, riferisce che: “Dalla firma del Trattato di Pace tra il governo nazionale e le FARC-EP fino al 15 luglio 2020, 971 leader sociali e difensori dei diritti umani sono stati uccisi in Colombia (21 nel 2016, 208 nel 2017, 282 nel 2018, 253nel 2019 e 53 nel 2020 finora)”.
La ratifica del trattato di pace tra FARC e il governo colombiano nel novembre del 2016 ha portato alla fine di un ciclo di guerre che, per cinquant’anni, ha afflitto la popolazione rurale in maniera sproporzionata e che ha avuto un impatto serio sulle popolazioni indigene, i discendenti degli Africani e le comunità contadine.
Questo accordo ha creato grandi speranze e aspettative tra le popolazioni indigene e le loro organizzazioni, di poter finalmente condurre una vita pacifica nei loro territori e affermare i loro auspicati piani di autonomia e la loro visione di sviluppo.
Eppure i loro diritti hanno continuato ad essere violati e la situazione in alcune regioni peggiora di giorno in giorno: tra la firma del trattato di pace nel 2016 e la metà del 2020, 250 leader indigeni sono stati uccisi. Una delle regioni in cui si è perpetrata la più grande violenza contro i leader indigeni è Cauca.
Con l’implementazione del trattato di pace e il conseguente disarmo delle FARC, le aree che prima erano controllate da queste forze della guerriglia sono state abbandonate, con l’idea che lo Stato avrebbe intrapreso delle azioni per includere questi spazi nella vita istituzionale del paese, attraverso programmi mirati a creare un’economia e una cultura basata sulla legalità.
Tuttavia la realtà è stata quasi l’opposto e il nuovo governo di Ivan Duque, che è entrato in carica nel 2018, non ha adempiuto alla propria parte di accordo. Di conseguenza questi territori sono diventati un campo di battaglia per i gruppi paramilitari che lottano per il territorio. In questo contesto l’assassinio dei difensori dei diritti umani è uno strumento che questi gruppi armati usano per consolidare il controllo sul territorio e soggiogare politicamente le popolazioni rurali.
Un altro conflitto che ha guadagnato terreno è quello per il traffico di droga. Dalla ratifica del Trattato di Pace, l’area coltivata a piantagioni di coca è cresciuta significativamente. Prima del 2016, l’area coltivata a coca corrispondeva a circa 100.000 ettari. Da allora, però, secondo il Sistema Integrato di Monitoraggio delle Coltivazioni Illecite delle Nazioni Unite, le piantagioni di coca si sono considerevolmente espanse tra i 150.000 e i 170.000 ettari.
La coltivazione di coca ha sottratto un’area più o meno di 14.000 ettari dalle riserve indigene nel 2019. Questo è il risultato di una violenza crescente in tutte le sue forme.
Le autorità e i leader di alcune riserve indigene stanno scegliendo di resistere o, in alternativa, di proporre la sostituzione di queste aree con colture alimentari attraverso programmi finanziati dal governo nazionale. La politica di difesa del territorio delle autorità indigene è vista come un ostacolo dai trafficanti di droga e dai loro eserciti, che rispondono però con minacce ai leaders, obbligando l’allontanamento dai territori e l’assassinio dei membri della loro comunità.
Oltre ad aver creato coltivazioni di coca sui terreni delle riserve, i gruppi armati stanno cercando di coinvolgere la popolazione locale, in particolare i giovani, a lavorare come braccianti giornalieri nei campi o nella rete del traffico di droga o come soldati armati.
Opporre resistenza al reclutamento forzato dei giovani e allo stanziamento delle truppe armate sui propri territori è stato per decenni un obiettivo dell’azione politica dei leader indigeni. Questa posizione è una delle ragioni principali per cui i leader sono diventati l’obiettivo militare dei cartelli di trafficanti di droga.
Territori indigeni e terreni di guerra
L’area geografica in cui si verificano gli omicidi di leader indigeni e dove i diritti territoriali sono violati corrisponde alle regioni in cui i gruppi armati sono in lotta per il controllo delle rotte del narcotraffico, dove la coltivazione di coca è più concentrata e l’estrazione mineraria illegale è più radicata. Queste sono aree in cui storicamente sono sempre esistiti conflitti per il controllo e l’accesso ai territori, o dove sono presenti corpose operazioni di estrazione mineraria.
La popolazione indigena del distretto del Cauca, in particolare la comunità Nasa, ha sofferto in maniera spropositata per gli omicidi dei propri leader. Circa 94 leader indigeni sono stati uccisi dal 2016, 28 solo nella prima metà del 2020. Ciò significa che questa sola regione pesa per il 37,6% sul totale degli omicidi di difensori degli indigeni.
Un altro territorio profondamente colpito dalla violenza è quello della popolazione Awá. Circa 25.000 Awá vivono nelle riserve nel sud-ovest della Colombia, tra la costa sul Pacifico e il confine ecuadoriano. In questa regione si trovano alcune delle più grandi aree di coltivazione illegale di coca in Colombia.
Le aree coltivate ammontano a circa 45.000 ettari nelle municipalità costiere, ossia il 25% del totale dei terreni coltivati in Colombia. Questa situazione ha caratterizzato la regione sin dall’inizio del XXI secolo ed è sfociata in episodi di violenza verso gli indigeni e i discendenti africani che vi abitano.
Il governo Autonomo Indigeno ha sottolineato a questo proposito: “Dal 2000 ad oggi ci sono 425 membri di comunità assassinati in Nariño. Quasi due al mese. Negli ultimi due anni e mezzo abbiamo visto 30 Awá morire per mano di soggetti armati.”
Insieme a questo, la presenza di paramilitari e di scontri tra gruppi armati all’interno delle riserve indigene implica che le comunità siano costrette al confinamento per diversi periodi di tempo. Alcuni episodi hanno mostrato che le mine antiuomo posizionate all’interno delle foreste limitano gli spostamenti e provocano situazioni di crisi alimentare.
La popolazione indigena Embera-Wounaan che abita le zone forestali delle regione orientale della Colombia ha trascorso gli ultimi due decenni in questo clima di disagio, pressione territoriale e minacce persistenti da parte dei gruppi armati.
Nel corso dell’ultimo anno i massacri sono diventati l’espressione prescelta per l’estrema violenza dei gruppi armati. Questo fenomeno ha lo scopo di creare paura tra le popolazioni indigene e di immobilizzarle, per minare la loro capacità di opporre resistenza ai gruppi clandestini che entrano nei loro territori.
La giornalista Valerie Cortés ha contato fino ad ora 43 massacri nel 2020: “Antioquia, Cauca, Nariño, Norte de Santander e Putumayo sono i dipartimenti che quest’anno contano il più alto numero di stragi fino ad ora. Ci sono stati 31 massacri in questi territori, pari al 72% del numero complessivo registrato in tutto il paese. Ovviamente questa è anche l’area con la più alta percentuale di vittime: 134 su 181, approssimativamente il 74%.”
Le organizzazioni indigene di fronte alla violenza
Da quando sono venute a conoscenza della situazione sui territori e delle minacce contro i loro leader, le organizzazioni indigene hanno agito come una rete di comunicazione in grado di generare allarmi volti a mobilitare le istituzioni governative e non governative responsabili della protezione dei diritti degli indigeni.
Questa funzione li ha resi un obiettivo militare per le bande criminali e, in alcuni casi, i loro leader hanno subito minacce, sono stati costretti a trasferirsi o sono stati uccisi.
Nei territori indigeni, le autorità hanno addestrato gruppi di guardie ad agire in maniera organizzata per il controllo sociale interno e la difesa del territorio. Pur non essendo armate, le guardie indigene affrontano i clandestini che cercano di penetrare nei territori, proteggono i loro leader dalle minacce dei paramilitari e mobilitano l’intera popolazione per resistere alla violenza.
Benché le organizzazioni indigene non abbiano la capacità di affrontare direttamente la violenza all’interno delle comunità, la loro importanza sta nell’agire come una rete di comunicazione sia all’interno del paese sia a livello internazionale. Attraverso la prevenzione immediata e pacifica le organizzazioni regionali e nazionali sono state parte fondamentale nella protezione e nella salvaguardia delle comunità.
Di William Villa*
Traduzione dall’inglese di Federica Frisiero. Revisione: Silvia Nocera
*L’articolo è stato scritto da William Villa, antropologo e ricercatore. Da quattro decenni Villa pubblica opere legate alla costruzione territoriale e politica delle popolazioni indigene e afro-colombiane, sulla violazione dei diritti, sui conflitti vissuti nei loro territori e sulla caratterizzazione della loro organizzazione sociale e politica.