Amnesty International ha denunciato che solo negli ultimi due mesi in Egitto sono stati messi a morte almeno 57 prigionieri, donne incluse, quasi il doppio delle 32 esecuzioni capitali registrate in tutto il 2019. Questo orribile attacco alla vita umana ha riguardato, tra gli altri, almeno 15 prigionieri condannati a morte per violenza politica al termine di processi clamorosamente irregolari, segnati da “confessioni” forzate, torture e sparizioni forzate.
Questo bilancio già di per sé drammatico rischia di essere persino sottostimato, poiché le autorità egiziane non rendono noti i dati sulle esecuzioni e sul totale dei prigionieri nei bracci della morte e non danno preavviso a familiari e avvocati. La stampa filo-governativa ha riferito, citando fonti anonime, di 91 esecuzioni dal mese di ottobre.
L’ondata di esecuzioni ha fatto seguito a una rivolta scoppiata il 23 settembre nell’ala del carcere di massima sicurezza di Tora nota come “lo Scorpione”, in cui rimasero uccisi quattro prigionieri condannati a morte e quattro membri delle forze di sicurezza. Secondo le autorità, si trattò di un tentativo di evasione ma non c’è mai stata un’indagine indipendente e trasparente sull’accaduto.
Oltre ai 15 prigionieri messi a morte al termine di processi relativi a fatti di violenza politica, tra ottobre e novembre sono state eseguite altre 42 condanne a morte nei confronti di 38 uomini e quattro donne, per atti di criminalità comune, tra cui stupri.
Il 3 ottobre sono stati messi a morte due uomini condannati al termine di un maxi-processo per quelli che sono passati alla storia come “i fatti della Biblioteca alessandrina”, atti di violenza politica seguiti al sanguinoso sgombero del sit-in di Rabaa, al Cairo, nell’agosto 2013.
Il 4 ottobre, nel caso conosciuto come “Agnad Masr”, 10 uomini sono stati messi a morte per atti di violenza contro pubblici ufficiali e beni pubblici. Nel corso del processo gli imputati avevano denunciato di essere stati sottoposti a tortura e a sparizione forzata, ma non è poi stata disposta alcuna indagine. A processo ancora in corso, uno degli imputati che poi sarebbero stati messi a morte, Gamal Zaki, era stato costretto a “confessare” in una dichiarazione filmata trasmessa da numerose emittenti televisive.
Sempre il 4 ottobre altri tre prigionieri sono stati messi a morte al termine del processo per “l’attacco alla stazione di polizia di Kerdasa”, sempre successivo allo sgombero di Rabaa, in cui erano morti 13 agenti di polizia. Nel dicembre 2014, un tribunale antiterrorismo aveva condannato 183 imputati a morte (34 dei quali in contumacia). In appello, erano state confermate 20 condanne a morte. Gli altri 17 condannati restano nel braccio della morte. Nove organizzazioni per i diritti umani avevano denunciato le gravi violazioni del diritto a un giusto processo, tra cui il diniego del diritto alla difesa e le coercizioni utilizzate per estorcere “confessioni”.
Oltre ai 57 casi verificati, Amnesty International sta cercando di ottenere conferma delle altre 34 esecuzioni riferite dalla stampa filogovernativa egiziana. Le famiglie sono riluttanti a parlare con le organizzazioni per i diritti umani per il timore di ripercussioni.
Altrettanto difficile è accertare il numero di prigionieri in attesa di esecuzione. Tra questi vi è sicuramente Wael Tawadros, noto come padre Isaia, un monaco condannato nell’aprile 2019 per l’omicidio del vescovo Anba Epphanius. Tawadros è stato condannato a morte al termine di un processo gravemente iniquo, basato su una “confessione” di colpevolezza estorta con la tortura durante un periodo di sparizione forzata, tra il 2 e il 28 agosto 2018.