Il 22 dicembre scorso la Corte Suprema norvegese ha respinto il ricorso di alcune organizzazioni ambientaliste contro 10 licenze per costruire trivelle nel Mar Artico concesse tra il 2015 e il 2016 dal governo. Greenpeace e l’ONG norvegese Nature and Youth sostenevano che l’estrazione di petrolio in Artico fosse in contraddizione con la Costituzione norvegese. In particolare con l’articolo 122, che garantisce il diritto a vivere in un ambiente sano e in cui le risorse naturali, vengano gestite sulla base di considerazioni a lungo termine che salvaguardino questo diritto anche per le future generazioni.
Gli ambientalisti sostengono che l’estrazione di petrolio dal Mar Artico violi questo diritto, contribuendo ad incrementare le emissioni di gas climalteranti accelerando il riscaldamento climatico e pregiudicando, infine, il diritto ad un ambiente sano per le generazioni future. Inoltre, i gruppi ambientalisti sostengono anche che il governo norvegese sia responsabile per le emissioni provocate dal petrolio estratto in Norvegia ed esportato all’estero.
Si tratta di tesi coraggiose che, se fossero state accolte, avrebbero messo in crisi un intero settore dell’economia norvegese. Infatti la Norvegia è il principale produttore di gas e petrolio dell’Europa Occidentale e il terzo esportatore mondiale di gas naturale dopo Russia e Qatar. Per di più, gran parte delle emissioni prodotte dall’utilizzo di petrolio norvegese avvengono all’estero; il New York Times stima che le emissioni di anidride carbonica prodotte in paesi stranieri, siano dieci volte superiori a quelle prodotte all’interno del paese.
È forse proprio per l’impatto che avrebbe avuto una eventuale sentenza di accoglimento sull’economia norvegese, che la Corte Suprema ha preferito interpretare l’articolo 122 della Costituzione riducendone il campo di applicazione. Gli ambientalisti norvegesi hanno comunque fatto sapere che non intendono arrendersi e che cercheranno di portare il caso davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Forse, però, questa non è né la strada più efficace né quella più auspicabile. Infatti, non è chiaro se la Corte accetterà il caso e, anche nell’eventualità in cui lo facesse, potrebbero passare anni prima di una sentenza che, comunque, difficilmente accoglierà le rivendicazioni dei gruppi ambientalisti. Non possiamo infatti ignorare che una sentenza contro le trivellazioni in Artico creerebbe un precedente esplosivo, capace di mettere in discussione l’intera industria estrattiva, e non solo in Norvegia.
D’altra parte, viene da chiedersi se sia auspicabile lasciare che a decidere la questione siano corti e tribunali. Gli interessi in gioco, la vastità delle conseguenze e la complessità della questione suggeriscono che sia la politica a dover dare risposte a chi chiede un ambiente pulito, oggi e per le generazioni future. Se siamo tutti d’accordo sull’obiettivo di avviare la transizione verso un’economia più sostenibile, il confronto su come raggiungere l’obiettivo e su quali misure adottare è infatti squisitamente politico.
Alessandro Fabbri