In questi giorni, forse per ricordarmi da dove vengo, ho dato un’occhiata ai diari che scrivevo dal carcere e ho pensato di rendere pubblici alcuni brani. Non lo so perché lo faccio, forse perché m’illudo di poter seminare qualche dubbio in alcune persone che pensano che chi fa del male ne deve ricevere altrettanto. Forse semplicemente perché mi sento un po’ come un reduce di guerra e non riesco a scrollarmi il carcere di dosso, perché spesso mi tornano alla mente tutti i ventisette anni di carcere, con i periodi d’isolamento, i trasferimenti punitivi, i ricoveri all’ospedale per i prolungati scioperi della fame, le celle di punizione, ecc. Se vi va leggete, perché spesso in un prigioniero c’è un pezzo di cuore di ognuno di noi:
“Oggi un compagno si è tagliato le vene… Tutto quel sangue mi ha impressionato: la limitatezza e la fragilità della natura umana in carcere è come uno specchio e ti senti emotivamente coinvolto… Insomma non è come vedere la sofferenza in televisione, è tutto molto più brutto, più vero, più crudele…”.
“Verso le 16.00 mi hanno chiamato in matricola ed ho avuto l’occasione di vedere una donna detenuta con una bambina bellissima in braccio. Nonostante in carcere ne abbia viste tante, mi ha fatto molto effetto vedere un angelo dietro le sbarre… Mentre andavo via non ho resistito alla voglia di farle una carezza e lei mi ha sorriso come solo i bambini sanno fare. Aveva sul visino molte punture di zanzare e anche questo fatto mi ha fatto molta pena…”.
“Oggi c’è stata una battitura alle sbarre, collettiva e spontanea… un detenuto che si sentiva male, per protestare perchè non veniva il medico, si è rifiutato di entrare in cella e per risposta è stato aggredito da due guardie… Abbiamo visto il compagno albanese con il sangue che gli colava dalla testa e poi l’hanno portato alle celle di punizione…”.
“Agli ergastolani malati, per tirare su il morale, dicevo spesso che il destino, per farci soffrire di più, ci avrebbe fatto morire per ultimi, ma purtroppo non sempre è così. Oggi ho ricevuto la notizia che un altro ergastolano ha finito di scontare la sua pena prima dell’anno 9.999 perché è morto per un colpo al cuore”.
“Sono partito da Nuoro verso le 11.00, con il solito blindato che sembra una scatoletta di sardine… Chi ha progettato questi furgoni blindati per trasportare i detenuti deve essere una persona che ha dei problemi mentali perché neppure gli animali sono trasportati in queste condizioni. Arrivo ad Olbia verso le 12.30. Dopo ore di attesa, dentro quella scatola di sardine, con un caldo soffocante, senza poter bere ed andare in bagno, prendo l’aereo verso le 16.00 e alle 17.00 arrivo a Firenze e dopo dieci minuti al carcere di Sollicciano. Come al solito mi assegnano alla sezione transito ma, peggio del solito, capito in una cella dove sembra che siano passati i vandali: il tasto del volume della televisione rotto, senza cuscino, senza luce artificiale, solo uno stipetto, muri della cella sporchi e in alcune parti macchiate di sangue. Pulisco come posso, mangio un pezzo di pane con un po’ di formaggio, che mi sono portato da Nuoro, e poi mi addormento, con il desiderio di non svegliarmi più”.
“Ogni tanto penso a tutto il tempo che il mio magistrato di sorveglianza ci ha messo per rispondermi che devo morire in carcere. Prima di questa esperienza pensavo che la violenza fosse nelle urla, nelle botte, nella guerra e nel sangue. Adesso so che la violenza è anche nel silenzio delle cosiddette persone perbene. Loro vedono sempre la cattiveria degli altri, mai la loro”.
“Oggi ho ricevuto una lettera da una detenuta, che mi ha raccontato di quando si è suicidato il marito (e padre di suo figlio) in carcere, che mi ha molto commosso. Le sue parole mi hanno confermato ancora una volta quanto spesso sono disumani gli umani: (…) Mia madre e mia zia, che non vedevo da anni, mi vennero a dire che Giampiero si era impiccato in carcere. Tre giorni prima nei sottotitoli del TG3 avevo letto una frase sfuggente, veloce, che mi aveva fatto venire i brividi: “Un altro suicidio in carcere”. Avevo pensato: “Non sarà mai il mio Giampy, speriamo che non lo sia…” (…) Mi diedero il permesso d’uscita per gravi motivi familiari con la scorta. Non mi tolsero neanche le manette dai polsi. Non ero mai entrata in un obitorio. Erano dei mostri. Aprirono uno di quei cazzo di orribili cassettoni frigoriferi davanti a me. Me lo portarono davanti agli occhi ancora chiuso nel sacco nero. Non l’avevano neanche vestito. Aprirono il sacco: era nudo, con i punti dell’autopsia sul torace fino al ventre, che deturpavano il suo bellissimo tatuaggio tribale. Non mi tolsero le manette. Ho dovuto accarezzarlo con i ferri ai polsi. Non mi hanno neanche concesso la pietà di salutarlo come avrei voluto. Il suo collo era pieno di lividi. Odiai Dio. Odiai la vita. Odiai me stessa. Odiai la morte. Odiai tutto l’universo. Lo baciai sulle labbra. E gli dissi: “Perdonami. Ti amo.” Poi me ne andai”.
“Mi ha chiamato Nicola, il compagno che ha tentato d’impiccarsi lo scorso mese, e l’ho un po’ consolato. Lo stanno imbottendo di farmaci, io invece credo che più di psicofarmaci abbia bisogno di speranza e io gli ho dato proprio quella, promettendogli che gli farò una istanza di permesso”.
“All’ultimo giorno utile per fare l’esame, mi hanno portato a Firenze. A parte i soliti disagi del viaggio, ho dovuto farmi Roma/Firenze con il furgone blindato senza la possibilità di urinare e di mangiare un panino… Sono arrivato a Sollicciano alle 17.00 ma mi hanno fatto salire alla sezione del transito alle 22.00 e non sono riuscito a trovare nulla da mangiare… Nel muro della cella, scritto con il sangue, ho letto: “Non t’impiccare, resisti, non devi avere paura dalla galera, è lei che deve avere paura di te”. Che cazzate! Mi sono addormentato subito dalla stanchezza“.
“Oggi ho scritto un reclamo ad un compagno per un fatto che mi ha emotivamente colpito: per aver fatto una carezza alla moglie in gravidanza, per sentire il bambino/a muoversi, è stato sottoposto al 14 bis e dalla Sicilia l’hanno trasferito in Sardegna”.
“Oggi un uomo ombra, che credevo fosse un duro, commentando il suicidio di un nostro comune amico ergastolano, mi ha confidato: Io non mi ucciderò mai, ma sento spesso il desiderio di farlo. Io ho pensato che sono proprio quelli che dicono che non lo faranno mai che sono più a rischio, ma non gliel’ho detto”.
“Ho ricevuto questa lettera da una detenuta: Sono stata condannata ad anni quattro e mesi otto di reclusione. La cosa che mi preoccupa più di tutto è perdere il lavoro perché, credimi, l’unico mezzo di sostentamento per me e per mia figlia era proprio il mio lavoro. Ti parlo con il cuore in mano, sono molto giù. E ho paura che psicologicamente stia crollando. Sono una persona molto semplice, che ha sbagliato, ma erano dieci anni che non entravo più in carcere. Mi ero sistemata. Adesso mi sento di aver perso tutto. E non ho più voglia di vivere. Sono giorni che piango da sola. Penso al suicidio. Non so Carmelo, può la giustizia far perdere tutto ad una donna di 45 anni che con fatica e impegno era riuscita a trovare un posto di lavoro fisso e una casa popolare? Il mio avvocato continua a chiedere soldi, ma io non so dove prenderli”.
“Ho letto di un altro suicidio in carcere. Ho perso il conto, nel giro di una settimana si sono tolti la vita 4 detenuti, a pochi giorni l’uno dall’altro. D’estate i suicidi in carcere aumentano. Sembra che i funzionari dell’Amministrazione penitenziaria abbiano diramato delle Circolari (che come al solito rimarranno carta straccia) per affrontare il problema. Eppure basterebbe poco per evitare alcune morti: un trasferimento in un carcere vicino a casa, una telefonata o un colloquio in più con i propri cari, una vivibilità migliore, un semplice ventilatore in cella o anche qualche ora d’aria in più nei cortili dei passeggi. E, soprattutto, un po’ di speranza e amore sociale. Spesso molti mi chiedono perché alcuni prigionieri si tolgono la vita. Non è facile rispondere a questa domanda, penso che purtroppo per alcuni detenuti non ci sia poi così tanta differenza tra trovarsi sepolti sottoterra o murati vivi in una cella“.