La PAC è la politica agricola comune che gli Stati dell’Unione Europea sottoscrivono ogni sette anni.
Non ne so nulla: chiedo spiegazioni a Federica Luoni, ornitologa ed esperta della LIPU. Prende aria nei polmoni e parla per un’ora e mezza filata. Non è facile spiegare, sintetizzare. L’Unione Europea ha una gran quantità di soldi con i quali sostenere i produttori agricoli in Europa, tanti soldi per difendere una produzione che in molti casi, se non sostenuta, sparirebbe. Praticamente: una serie di respiratori. A chi darli? Per tutti non ce n’è. Quindi le discussioni e le conseguenti decisioni che si prendono ogni sette anni sono determinanti: la coperta è grande, ma mai sufficiente. Tutti tirano dalla loro parte: un gruppo di paesi contro un altro, ogni singolo paese, una regione all’interno di un paese, un tipo di produttori rispetto a un altro e su tutto “i grandi e i piccoli” ecc…
Agricoltura significa Terra, ambiente, natura, ecosistema, ecologia: vogliamo elencare la quantità di articoli, libri, trasmissioni, convegni, assemblee, manifestazioni, petizioni che hanno riguardato la necessità di un cambio radicale nel rapporto Uomo-Natura? La politica agraria è intrisa di questo e si sperava che qualcosa fosse passato, che ci fosse più coraggio, che si sterzasse davvero, non che si desse la solita sverniciata di verde. E invece è stato così.
Federica mi spiega con pazienza: “Un’enorme rete di associazioni ambientaliste italiane, la rete “Cambiamo l’agricoltura” (formata da 73 associazioni), ha seguito il dibattito, ha fatto pressione, è stata col fiato sul collo ai nostri parlamentari. Lo stesso hanno fatto altri gruppi in tutta Europa, coordinati con noi. Come altre volte è successo in queste occasioni, il gioco è stato al ribasso. In sostanza non si va a intaccare il modello precedente, quello dell’agricoltura carica di pesticidi, degli allevamenti intensivi, quella che non lascia spazio e tempo alla natura per riprendersi, quella che sfrutta, quella in una sola parola, miope.
Bisognava sostenere tutti quei produttori attenti alla qualità, al rispetto degli ecosistemi, tutti coloro che, “senza saperlo”, rispettavano già quelle che sono le migliori indicazioni date dal mondo scientifico-ambientalista. Si, perché ci sono agricoltori che rispettano la natura. E tutti coloro che vorrebbero passare a un modello più sostenibile. Questi andavano sostenuti.”
Federica racconta che la rabbia è stata tanta quando a fine ottobre il voto è andato come è andato. L’Italia è stata tra l’altro più “retrograda” di altri paesi e ha fatto davvero una brutta figura.
Che cosa possiamo sperare ora? Che la lotta si sposti all’interno di ogni paese europeo, perché grandi sono i margini di manovra. “Ma cosa possiamo sperare in un paese che tra quelli europei ha dimostrato meno attenzione della media?” E qui forse c’è la chiave, la famosa “porticina dell’orto”, l’uscita di sicurezza: l’Italia ha forse una classe politica non all’altezza della sua società. Saranno i movimenti, le associazioni, una parte degli stessi produttori, una buona fetta di consumatori responsabili, che dovranno piegare una cultura miope che vede nel massimizzare la produttività l’unico obiettivo. Saranno i giovani che si stanno documentando sempre di più, che hanno voglia di capire, che sono sempre più coscienti che ne va del loro futuro, della possibilità di fare figli e credere nella vita.
Saranno loro, saremo noi, che piegheremo la lentezza burocratica, il conservatorismo becero, la misera retorica “progressista”, fino a dei cambiamenti radicali che vedano per esempio ridursi davvero, fino a sparire, l’uso di pesticidi, l’impoverimento della terra fino a renderla un deserto, gli allevamenti intensivi e le conseguenti produzioni di gas che inquinano il pianeta fino a mettere a rischio la sopravvivenza di molte specie, non ultima la nostra…
Federica aggiunge: “Siamo arrabbiati per la retorica che è stata usata in questo momento dalla politica europea: ha inneggiato al cambiamento, quando non si è trattato altro che di greenwashing. La partita però è ancora aperta, noi faremo tutto il possibile perché la rotta cambi. Ci sono tanti segnali di cambiamento nella giusta direzione. Ce la giocheremo fino in fondo.”
Le chiedo infine se crede che ci sarà bisogno anche di azioni di forza, penso per esempio a manifestazioni che in passato hanno circondato degli allevamenti intensivi, o se basterà la crescente presa di coscienza e le nuove normative: “Ci sarà bisogno di entrambi. Solo urlare non serve, solo fare proposte non serve. Io credo nella nonviolenza, cosa che non esclude la forza. Credo comunque che col mondo agricolo vadano trovata una mediazione, un percorso e una soluzione comune. L’ambientalismo e i produttori agricoli non devono essere due fronti contrapposti.”
Il giorno successivo parlo anche con Martina Comparelli di Fridays For Future e le faccio le stesse domande. Lei studia online Climate Change and Health all’università di Yale, il suo discorso si ricollega molto di più alle enormi preoccupazioni delle nuove generazioni, soprattutto il riscaldamento globale. Sulla PAC completa e integra quello che ha spiegato Federica, ricorda le azioni più eclatanti, quelle di Greenpeace o Terra per esempio, ma soprattutto dà voce alla generazione successiva. Il suo atteggiamento è più vicino ai movimenti, alle manifestazioni provocatorie, allo slancio, alla rabbia e all’ansia giovanili. I giovani si stanno formando, stanno capendo e sono sempre più attenti. I loro seminari fanno davvero sperare. Useranno metodi diversi, ma la loro spinta sarà fondamentale.
Foto di Andrea Carrera
Martina mi spiega che i gruppi di FFF sono 160 in tutta Italia, puntano all’orizzontalità, all’ascolto, studiano, cercano, si dividono in gruppi di lavoro, sperimentano, agiscono. Mi dice che faranno comunque ancora tutto il possibile perché la Commissione Europea riveda questa decisione presa, lo faranno fino all’ultimo: “Questa Pac – conclude – è un disastro sistemico. Noi puntiamo al suo ritiro, non basterebbero certo degli emendamenti. Qui si parla del nostro futuro, della nostra vita.”