“La legalità viene presentata come un valore assoluto, da insegnare nelle scuole, da trasmettere ereditariamente. Ogni bambino deve crescere con l’idea di Legalità. Dopodiché la storia [quel convitato di pietra che descrivevo prima] arriva sempre un po’ petulante a ricordarci che ogni evoluzione umana è avvenuta attraverso una rottura della legalità vigente, e che la legalità in realtà non è un valore ma un metodo. La società è un accordo raggiunto tra soggetti che portano interessi diversi, addirittura in conflitto. I rapporti di forza intercorrenti tra di essi determinano un accordo artificiale che è una specie di patto: la società, appunto. Questo accordo artificiale viene fatto rispettare grazie a un metodo che si chiama legalità. Metodo che quindi risente degli stessi condizionamenti, delle stesse ideologie, degli stessi rapporti di forza che intercorrono in una società, in un preciso momento storico.
Può elevare a valore assoluto il metodo della legalità solo chi presuma di essere nella società ideale, nell’anarchia realizzata, nel socialismo utopistico, nella democrazia perfetta. Solo se penso di essere al culmine della storia umana, se credo in un progresso costante e perfetto rispetto al quale mi trovo nell’ultimo stadio posso attribuire alla legalità un valore assoluto. Se le cose non stanno così e la legalità rimane un valore al di là dei condizionamenti di potere, allora ha ragione Adolf Eichmann quando difendendosi a Gerusalemme afferma di essere il rappresentante di una legalità voluta e costruita dal popolo tedesco attraverso un processo di consenso democratico e di non poter essere giudicato ex post da i vincitori della guerra. Se la legalità è un valore assoluto, indipendente dal contesto in cui viene invocata, Eichmann ha ragione e Sandro Pertini e Giovanni Pesce sono terroristi. Non c’è via di mezzo.”
[Luca Rastello, Il presente come storia]
Non c’è via di mezzo, ci ha ricordato più volte Luca Rastello, in una delle sue digressioni sul concetto di legalità e sulle sue deformazioni, concetto pericolosamente assolutizzato che insieme a quello di memoria rappresentavano i “valori-feticci” o gli “idoli” eletti sugli “alti luoghi della città”, come in un rito pagano che non conosce tramonto, né trasgressione storica. Sull’uso strumentale di legalità e memoria si era soffermato anche dal vivo, una sera, proprio a Roma, poco prima della sua morte, in uno dei tanti luoghi che ha vissuto una vita di luci traballanti fino al paventato sgombero. Quest’ultimo rappresenta, contrariamente a tutte le altre pratiche contraddistinte da situazioni di pendenza eterna che conformano la gestione dell’Urbe, un costante epilogo certo nonché elemento di continuità tra le amministrazioni comunali.
Oggi, a sbandierare tronfiamente il vessillo della legalità per aprire le danze del consenso torpido è la Sindaca Virginia Raggi, che coglie prontamente la sua ora in una crociata alla quale non è nuova intorno a una delle parole chiave sulla quale poggia il suo canovaccio e buona parte della retorica del M5S: legalità. In piena pandemia e crisi sanitaria, l’attività contraddistinta da maggior regolarità resta proprio quella degli sgomberi grazie ai quali si tenta di offrire slancio a una campagna elettorale spossante e dalle dubbie emozioni, ovvero quella per le elezioni amministrative romane, principalmente attraverso azioni di forza, dispendiose nel breve periodo, ma tali da garantire sensazionalismo mediatico e visibilità. Si tratta, inoltre, di atti usa-e-getta che risultano meno impegnativi per le amministrazioni, soprattutto quelle che hanno svuotato di significato un’altra parola chiave cara ai movimenti che si richiamavano ai principi della democrazia diretta ovvero la “partecipazione”, rispetto, ad esempio, ai costi intellettuali e logistici e agli investimenti in termini di tempo, riconoscimento, analisi e apprendimento necessari per la costruzione di partenariati pubblico-privato che siano realmente rappresentativi, funzionali e coinvolgano anche reti informali e autorganizzate tramite processi partecipativi autentici e aggiornati anziché echeggiati con mere finalità promozionali senza fondamenta reali né base teorica o procedurale.
Nell’intensa stagione degli sgomberi, l’alba del 25 novembre ha segnato le sorti del Nuovo Cinema Palazzo, uno dei ritrovi culturali più attivi della capitale che ne ha ospitato la scena sociale negli ultimi dieci anni sin da quando una parte della cittadinanza era riuscita a impedire l’apertura di un casinò nei locali in cui aveva sede una storica sala cinematografica. Da quel momento, era stata avviata una ferma opposizione nei confronti della speculazione edilizia in atto a San Lorenzo, uno dei quartieri storici di Roma.
Occupato il 15 aprile 2011 con tale intento di arginare la speculazione, in questi ultimi mesi nei quali molti centri sociali romani sono stati il punto di riferimento principale, quando non l’unico, per persone di ogni origine di fronte alle crescenti difficoltà, soprattutto sul piano socio-economico, che hanno caratterizzato la fase più acuta del confinamento e che sono tuttora rilevanti, il Nuovo Cinema Palazzo è anche uno degli ultimi luoghi rimasti da quella che viene ricordata come una fase intensa di riappropriazione socio-culturale avviata in particolare da movimenti collettivi di giovani e artisti della quale l’occupazione del centrale e rappresentativo “Teatro Valle” è stata l’anima propulsiva e il punto di riferimento nell’ultimo decennio, fino allo sgombero avvenuto in quel caso già nel 2014.
Gli attacchi al Nuovo Cinema Palazzo non sono mai mancati, a partire dai sigilli posti già il primo anno dell’occupazione. Negli ultimi mesi si erano susseguiti episodi di tensione sproporzionata, associabile più a diatribe tra condòmini eccessivamente stanziali che a uno spazio di tale rilievo culturale nonché posizione strategica, che cavalcavano un’altra parola chiave fondamentale nel canovaccio dell’amministrazione grillina, ovvero il “decoro” in chiave unilaterale. La sfida a tale concetto, assolutizzato in maniera non dissimile dalla “legalità” di cui sopra, era rappresentata da alcuni vasi di piante posti all’esterno del Nuovo Cinema Palazzo con lo scopo di creare una piccola area verde nei limiti della quale poter studiare all’aperto o giocare nel rispetto delle misure di contenimento in vigore, vasi che sono stati rimossi più volte fino al taglio per opera del Comune di Roma di un tiglio e di un fico, gli unici due alberi della piccola porzione di piazza antistante lo stabile. Un servizio di rimozione sul quale molto raramente, è importante ricordarlo, è possibile contare per la manutenzione del verde così come di quella ordinaria generale, soprattutto nei quartieri meno centrali, che è stato assicurato con una inusuale efficienza nei confronti di alberi e fioriere tanto cari alla narrativa sul “decoro di facciata” di molti amministratori locali, non soltanto in casa 5 Stelle.
Lo sgombero odierno viene sbandierato con una provocazione ulteriore oltre a quella dell’uso della forza, ovvero la rapida e vanagloriosa assimilazione, sui canali di comunicazione sociale della stessa Sindaca Raggi, di una doppia operazione che ha riguardato, nella stessa giornata, oltre all’ex cinema di piazza dei Sanniti anche uno spazio di proprietà dell’ATER, l’azienda territoriale per l’edilizia residenziale pubblica della provincia di Roma, sito a breve distanza da San Lorenzo, ma occupato dall’organizzazione neofascista “Forza Nuova”. La vecchia retorica grillina dell’annullamento politico di destra e sinistra si spinge ancora oltre forzando ulteriormente, da un lato, la semplificazione intorno alla strumentalizzazione della legalità come concetto faro per ammaliare l’elettorato che brama una normalità convenzionale lontana dall’eccezionalità della crisi sanitaria. Lo sgombero, la sua documentazione scenica, forniscono così un diversivo ideale in un momento irreale. Dall’altro lato, si tratta di una pericolosa e fuorviante assimilazione imperniata sull’argine, argine del quale la Sindaca si affretta a ergersi paladina, da “estremismi” associati a due realtà che dovrebbero, in realtà, sfuggire a qualsiasi tentativo di comparazione e di cumularne la portata in termini di spendibilità politica. Rapida e decisa è stata la presa di posizione da parte di cittadini, rappresentanti istituzionali e dell’ANPI, l’associazione nazionale dei partigiani e delle partigiane, che ha diramato un comunicato nel quale si specifica come “i due sgomberi sono stati eseguiti contemporaneamente quasi si potessero equiparare e reciprocamente giustificare, con un fuorviante messaggio di intransigenza contro ‘opposti estremismi, ma il fascismo non è questione di opposti estremismi. Fascismo ed esperienze collettive di socializzazione e cultura non sono equiparabili”.
Se, da una parte, l’esperienza del Nuovo Cinema Palazzo veniva lodata e cercata dalla stessa Virginia Raggi, all’epoca candidata al primo turno in cerca di consenso trasversale, quando ne lodava pubblicamente il carattere inclusivo lo scorso 14 maggio 2016 usando termini come “ascolto” e “confronto”, la violenza estremista di un’organizzazione neofascista come Forza Nuova e la sua connotazione xenofoba sono state denunciate, dettagliate e sanzionate in numerosi atti istituzionali, tra i quali le recenti mozioni della Camera dei Deputati recanti iniziative volte al contrasto della violenza neofascista e neonazista che a loro volta recepivano la risoluzione 2018/2869 (RSP) del Parlamento europeo sull’aumento della violenza neofascista su tutto il territorio dell’Unione.
Poco più di un mese fa, in occasione dell’anniversario dell’occupazione una delle altre realtà sociali più salde della capitale, ovvero il CSOA “La Strada” del quartiere Garbatella, Javier, Paula, Cristina e Jaime, studenti e studentesse in periodo di scambio universitario Erasmus provenienti da diverse località della Spagna e afferenti a diverse Facoltà e percorsi di studio, raccontavano come la visita agli spazi occupati di Roma era stata, fino a quel momento, la parte più interessante della loro esperienza, soprattutto per i due studenti di architettura, e come la sostenibilità nel tempo e la cooperazione intergenerazionale fosse, dal loro punto di vista, in contrasto con la soppressione di spazi culturali e di aggregazione sociale in corso in molte capitali europee. Avevo raccontato loro di quanto fossero, invece, a rischio anche a Roma e di come la vivacità che li aveva colpiti fosse invece stata segnata profondamente dagli sgomberi dell’ultimo decennio tanto da trasformarsi in fragilità permanente, ma la testimonianza diretta degli occhi puliti di chi viene da fuori e coglie uno spazio ancora ampio e aperto, al di là di divisioni esterne e interne, minacce alle porte e attacchi su fioriere e alberelli nell’asfalto, aveva rappresentato un ricongiungimento prezioso almeno con le generazioni di altrove, dato che sul piano locale è sempre tutto molto più complicato e screditante. Il fatto che la mobilità transnazionale si stesse concretizzando ancora una volta, senza clamori e sfidando tutti gli ostacoli del passato e del presente tanto da incrociarsi persino con una storia di ostacoli continui come quella degli spazi sociali della capitale, e di molte altre città in situazioni analoghe, esprimeva un bel contrasto in quel momento di inizio autunno che vorrei ricordare e trattenere oggi come antidoto proprio a quei feticci della legalità che soffocano gli spazi invece di liberarli in un momento storico nel quale dovrebbero, invece, essere al centro di atti di tutela e valorizzazione, nonché di moltiplicazione, anziché di ulteriore repressione.
“Chi può venga qui, venga a San Lorenzo” è stato l’appello di molti cittadini nel corso dell’intera giornata, tanto da organizzare in breve tempo sia una conferenza stampa, sia un corteo ampiamente partecipato verso il quale è convogliato anche lo spezzone del movimento “Non una di meno” in coincidenza con le mobilitazioni organizzate a livello cittadino in occasione della “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile contro le donne”.
Anna Lodeserto