Mentre marchi di moda stanno preparando merchandising con vari slogan e loghi che incitano o a Trump o a Biden, Calvin Klein ha iniziato la sua ultima campagna CK One intitolata “One Future”. Con l’obiettivo principale della collezione di jeans e intimo sulla cultura giovanile, la casa di moda ha arruolato un gruppo di giovani di età compresa tra 18 e 24 anni provenienti da tutta l’America per mostrare le loro città e condividere i loro pensieri sul futuro e sulle imminenti elezioni presidenziali. Nel testo della campagna CK One risuonano messaggi e slogan come “una nuova generazione punta al cambiamento ed è pronta a rendere questo paese un posto migliore per tutti”. Tra i testimonial anche l’attivista indigena Quannah Chasing Horse Potts, nata Oglala Lakota e membro tribale degli Han Gwich’in di Eagle in Alaska, che in un video prodotto da Calvin Klein che sta spopolando sui social, parla delle sue battaglie per proteggere l’Arctic National Wildlife Refuge dallo sviluppo petrolifero, del suo forte legame con le terre indigene e il modo di vivere della sua gente, ma soprattutto del suo impegno contro il cambiamento climatico e per la giustizia ambientale. Il tutto indossando abiti firmati Calvin Klein.
Non solo, la casa di moda pubblica una serie di editoriali politici in vista delle elezioni presidenziali del 2020 e tra questi vi è quello dell’attivista indigena. Un editoriale molto bello, ricco di aspirazioni, di voglia di giustizia per il suo popolo, per la difesa dell’acqua e dell’ambiente naturale, che però ha un grande difetto: è voluto e sponsorizzato da Calvin Klein. Domande sorgono spontanea: come mai Calvin Klein si mostra impegnata per la giustizia climatica? Siamo solo di fronte ad una operazione di greenwashing , ovvero “dipingere di verde ciò che verde non è”. Calvin Klein ha bisogno, come tanti altri marchi, di strumentalizzare queste narrazioni per rilanciare il suo marketing e per rigenerare la sua immagine pubblica. Tra le righe dell’editoriale si nota infatti che non c’è alcuna dimensione intersezionale delle lotte e nessuna critica al sistema economico che produce ingiustizie e diseguaglianze.
Nel 2011, con il rapporto “Dirty Laudry: Unravelling the corporate connections to industrial water pollution in China” 1 , riassunto nell’estratto “Panni sporchi. Il segreto tossico dietro l’industria tessile” 2 , Greenpeace denuncia il Textile Complex di Youngor e il Well Dying Factory Ltd di Hong Kong, due complessi industriali cinesi del tessile, di scaricare nei corsi d’acqua sostanze velenose, svelando il legame commerciale che li unisce con celebri brand dell’abbigliamento occidentali che vedevano in primis Calvin Klein e a seguire Abercrombie & Fitch, Adidas, Bauer Hockey, Converse, Cortefiel, H&M, Lacoste, Li Ning, Meters/bonwe, Nike, Phillips-Van Heusen Corporation (PVH Corp), Puma e Youngor. Le analisi parlavano di inquinamento da alchilfenoli, composti perfluorurati, benzene e da contaminanti pericolosi per l’ecosistema e per la salute umana fra cui metalli pesanti come cromo, rame e nichel e composti organici volatili quali il dicloroetano, il tricloroetano e il tetracloroetano.
Nel 2012 esce il rapporto di Greenpeace Asia intitolato “Toxic Threads: Putting Pollution on Parade” 34 , in cui Calvin Klein insieme a Levi’s, Gap e molte altre case di moda, risultava essere tra le fabbriche che riversavano i loro reflui nei sistemi di depurazione delle due località di produzione tessile più importanti della Cina, Shaoxing e Linjiang. Così scoppiò lo scandalo dell’inquinamento del Fiume Azzurro e del Fiume delle Perle, da parte dei colossi multinazionali occidentali. La presenza di questi veleni mise in pericolo la salute di tantissime persone, dal momento che i due fiumi forniscono acqua potabile a milioni di cinesi e solo il Fiume Azzurro è la principale risorsa idrica per 20 milioni di cittadini.
Questa pratica, oltre ad abbattere i costi della manodopera, per la sicurezza e per evitare i controlli sulla catena produttiva presenti nei paesi occidentali, aveva anche il fine di delocalizzare la contabilità dei gas serra per cui i paesi occidentali sembravano essere più virtuosi di quello che sono a livello di riduzione delle proprie emissioni climalteranti. Greenpeace fece analizzare prodotti d’abbigliamento realizzati da Adidas, Uniqlo, Calvin Klein, H&M, Abercrombie&Fitch, Lacoste, Converse, Nike e Ralph Lauren e acquistati in 18 Paesi del mondo (tra cui anche l’Italia): ben 52 dei 78 capi analizzati presentavano tracce di nonifenoli etossilati (Npe), composti chimici utilizzati come detergenti nell’industria tessili ma che, una volta rilasciati in ambiente, si trasformano in nonifenolo (Np), un distruttore endocrino che ha proprietà dannose per il sistema ormonale dell’uomo e che, grazie alla sua composizione chimica, facilita il processo di bioaccumulazione negli organismi viventi, mettendo a rischio la loro fertilità, il sistema riproduttivo e la crescita lungo la catena alimentare.
Passano gli anni e si scopre che le industrie siderurgiche, responsabili del 5% delle emissioni mondiali, inquinano meno dell’industria tessile e dell’abbigliamento, responsabile del 7%, ovvero quanto tutto il traffico marittimo e aereo internazionale messo assieme. Ancora oggi una sola maglietta di cotono richiede 2.700 litri d’acqua, e il cotone stesso occupa il 3% della terra arabile, assorbendo un quarto degli insetticidi usati nel mondo e l’11% dei pesticidi. Il 20% dell’inquinamento industriale dell’acqua è responsabilità dell’industria dell’abbigliamento con più di 5.000 miliardi di litri d’acqua usati per scolorire i jeans. Per questo motivo nel 2019 le case che valgono il 12,5% del mercato mondiale dell’abbigliamento, come Calvin Klein, Adidas, Decathlon, Gap, H&M, Hugo Boss, Zara e Tommy Hilfiger, Lacoste, Ovs, Urban Outfitters e Prada, hanno deciso di “impegnarsi per la sostenibilità” con la Global Fashion Agenda, un impegno per lo più generico, con scadenza nel 2020, che si ferma ad una maggiore attenzione al riciclo dei materiali e all’approvvigionamento attraverso fonti e processi più sostenibili.
Lo stesso anno la Calvin Klein viene travolta nello scandalo che vede coinvolti i lavoratori etiopi del settore dell’abbigliamento. Secondo lo studio condotto dallo Stern Center for Business and Industry della New York University, sono i meno pagati del mondo e lavorano, in condizione da fame, per marchi come Guess, H&M e Calvin Klein, guadagnando 26 dollari al mese. Questo con la complicità del governo etiope che aveva sedotto gli investitori sottolineando la volontà dei dipendenti di lavorare per meno di un terzo degli stipendi dei lavoratori del Bangladesh (95 dollari al mese), con il fine di diventare il principale centro manifatturiero del continente. Un etiope ha bisogno di circa 110 dollari al mese per sopravvivere. Hawassa Industrial Park, uno dei cinque centri industriali inaugurati dal governo dal 2014, che impiega 25.000 lavoratori etiopi. In più le fabbriche sostituiscono, attraverso il turn-over, sostituiscono tutti i loro dipendenti ogni 12 mesi. Il governo spera di far crescere ulteriormente la struttura fino a 60 mila dipendenti portando il fatturato estero di abbigliamento da 145 milioni a circa 30 miliardi di dollari. I bassi salari hanno portato a una scarsa produttività e a ripetuti scioperi e ad un elevato turn-over rendono fragile la crescita del settore.