Lo “shock” generale sollevato dall’indagine del giudice militare Paul Brereton sui crimini di guerra delle forze speciali australiane in Afghanistan e su pratiche efferate che sembrano essere parte integrante dell’identità di corpo, trascina anche l’Australia nel novero di quei Paesi che “esportando democrazia” hanno massacrato centinaia di migliaia di civili inermi (dentro o “fuori” dal conflitto armato).
Il rapporto del ministero della Difesa è stato reso noto dallo stesso governo australiano probabilmente per riparare ad alcuni “eccessi” indigeribili (e non insabbiabili) e ristabilire la “normalità” nelle operazioni di guerra che, al di là della pratica del così detto “blooding”, contempla ampiamente il concetto di danno collaterale.
Questa normalità delle operazioni di guerra fa il paio con la corsa agli armamenti globali che non si è arrestata nonostante la devastante crisi socio-sanitaria globale in corso ed anzi è trainata e costantemente rilanciata dagli Stati uniti, dalla Nato e da tutti i Paesi con cui l’occidente ha stretto cooperazioni militari in ogni quadrante del pianeta.
Il Pacifico non fa eccezione: grazie al famoso “pivot to Asia” di Obama di certo non interrotto da Trump, la Cina ha negli ultimi anni moltiplicato gli investimenti nella spesa bellica mentre l’Australia, impegnandosi in un corposo piano di riarmo, sta facendo diligentemente la sua parte.
Lo scorso luglio il governo di Scott Morrison ha infatti reso noto il suo Piano di Difesa strategica (Defence Strategic Update – DSU): 575 miliardi di dollari australiani, corrispondenti a circa 350 miliardi di euro da spendere nel decennio 2021-2030.
Sommergibili, fregate, elicotteri, cacciabombardieri (tra cui 72 F-35A), sistemi missilistici, droni, satelliti e mezzi blindati costituiranno il grosso della spesa che sarà principalmente rivolta alle acquisizioni.
Uno sforzo bellico decisamente importante per un Paese con una popolazione di 25 milioni di abitanti, un’economia in recessione per la prima volta dal 1991 ma soprattutto considerato che questo Paese è legato a filo doppio proprio con l’economia cinese dove esporta ferro e altri minerali e da cui attrae milioni di turisti ogni anno.
Ma tant’è. Morrison punta su questo piano di riarmo per la “creazione di una competitiva, innovativa e solida base industriale nazionale” chiedendo ai fornitori stranieri garanzie circa il coinvolgimento di aziende locali nella filiera. Il governo australiano conta così di portare il numero di aziende che si occupano di procurement militare dalle 4000 attuali alle 15.000.
Con un aumento del 38% della spesa rispetto al precedente documento di programmazione anche l’Australia si inserisce a pieno titolo nel trend globale della corsa agli armamenti con la particolare ambizione di trasformare il poco manifatturiero che esprime in una nuova economia di guerra. La madre patria ringrazia (vista la titolarità di molte commesse) e rilancia col recente pomposo annuncio di Boris Johnson di un aumento delle spese militari che non si vedeva dalla (prima) guerra fredda. God save the war.