Nel contesto dell’attuale aumento delle temperature dovuto al riscaldamento globale, risulta sempre più importante comprendere l’origine e l’entità dei cambiamenti nella disponibilità d’acqua sul Pianeta. Lo studio “Observed changes in dry-season water availability attributed to human-induced climate change”, pubblicato a fine giugno su Nature Geoscience da un team internazionale di ricercatori con il quale ha collaborato la Fondazione Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (Fondazione CMCC), è il primo studio che è stato in grado di correlare il cambiamento climatico di origine antropogenica con la diminuzione della disponibilità d’acqua durante le stagioni secche.
Lo studio del team di ricerca guidato da Ryan S. Padrón dell’Institut für Atmosphäre und Klima dell’ETH Zürich è riuscito ad analizzare la variazione della disponibilità d’acqua terrestre nel corso del ventesimo secolo, definita dalla differenza tra l’acqua in entrata nel sistema tramite le precipitazioni e l’acqua in uscita tramite l’evapotraspirazione, eliminando le incertezze ancora esistenti sulla responsabilità umana nelle variazioni del ciclo idrologico della stagione secca.
La ricerca si è articolata in due fasi: “Il primo passo è stato quello di realizzare e confrontare, utilizzando modelli di superficie terrestre e modelli statistici guidati da osservazioni, mappe globali della distribuzione dell’acqua disponibile nel suolo dal 1902 al 2014, periodo in cui si è verificato un aumento della temperatura media globale di circa un grado” ha spiegato Padrón. L’analisi si è focalizzata sulla differenza tra la disponibilità d’acqua media del periodo 1902-1950 e quella del periodo 1985-2014, ponendo a confronto il mese più secco dell’anno. Il team di scienziati ha così verificato una riduzione media della disponibilità d’acqua a livello globale nell’ultimo secolo, derivato principalmente da una maggiore evaporazione dell’acqua piuttosto che dalla riduzione delle precipitazioni. Il dato prevalente, anche se con differenze regionali, è che “Il 57-59% della superficie terrestre ha sperimentato un aumento dell’aridità nel mese più secco dell’anno: è il caso delle zone di medie latitudini come l’Europa, il Nord America occidentale, l’Asia settentrionale, il Sud America meridionale, l’Australia e l’Africa orientale”.
Il secondo passo è stato quello di cercare di attribuire la responsabilità di questo cambiamento, per comprendere se e in che termini questo dipenda dal cambiamento climatico di origine antropogenica piuttosto che dalla variabilità naturale. Per Daniele Peano, ricercatore della Fondazione CMCC, “Attraverso un’analisi multi-modello, abbiamo paragonato la distribuzione nel mondo della disponibilità d’acqua in tre diverse configurazioni: il mondo del 1850 (preindustriale), il mondo come lo osserviamo oggi (influenzato da variabilità naturale e antropogenica) e il mondo che avremmo osservato oggi se la variabilità naturale fosse stata l’unica ad influire sul clima. Con e senza l’attività umana, le simulazioni ci catapultano in un inizio di ventunesimo secolo completamente diverso, mentre il mondo preindustriale non è così differente da quello che avremmo avuto oggi senza l’influenza dell’uomo sul sistema climatico”. In questo modo gli scienziati hanno potuto escludere l’impatto della variabilità naturale, facendo dell’influenza umana l’unica spiegazione alla variazione di disponibilità d’acqua terrestre dal periodo preindustriale ad oggi.
Un dato che deve farci pensare, visto che circa dieci anni dopo il riconoscimento da parte dell’Assemblea generale dell’Onu dell’acqua potabile e dei servizi igienico-sanitari come diritti umani, miliardi di persone mancano ancora di questi servizi/diritti. A ricordarlo il 28 luglio 2020, in occasione del decimo anniversario dell’adozione della risoluzione 64/292 sull’acqua e i servizi igienico-sanitari come diritti umani, è stato Léo Heller, il relatore Speciale Onu su questo tema. Per Heller “La pandemia di coronavirus ci ha insegnato che voltare le spalle a coloro che hanno più bisogno di acqua e servizi igienico-sanitari può portare a una tragedia umanitaria. Se vogliamo costruire società giuste e umane, nei prossimi dieci anni, i diritti umani all’acqua e ai servizi igienico-sanitari devono diventare una priorità”. Secondo Heller, “Dieci anni dopo l’adozione della dichiarazione sull’acqua e i servizi igienici e 10 anni prima della scadenza per la piena realizzazione di questi diritti, il bicchiere è mezzo vuoto ed è anche mezzo pieno. I progressi compiuti dal 2010 possono mostrare un lento miglioramento dei diritti umani in materia di acqua e servizi igienico-sanitari, e la risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ha effettivamente innescato iniziative e ha ispirato diversi progressi creativi in questi campi”.
Tuttavia, anche se negli ultimi 10 anni sono stati fatti passi avanti significativi, i 193 stati che 10 anni fa si sono impegnati a garantire l’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari per tutti, non sono sempre sulla buona strada per raggiungere gli obiettivi contemplati anche dall’Agenda Globale 2030. “Oggi una persona su tre non ha ancora accesso ad acqua potabile e più della metà della popolazione mondiale non ha accesso a servizi igienici sicuri. Circa 3 miliardi di persone non dispongono di strutture per lavarsi le mani con acqua e sapone e oltre 673 milioni di persone praticano ancora la defecazione all’aria aperta. Una situazione che causa 432.000 morti ogni anno a causa della diarrea” ha concluso Heller.
Anche per questo l’Onu ha organizzato una campagna della durata di un anno per costruire ponti tra gli aspetti concettuali e teorici dei diritti umani in materia di acqua e servizi igienico-sanitari e la loro applicazione pratica sul campo nei paesi in via di sviluppo. Un aiuto fondamentale in un campo che troppo spesso, erroneamente, consideriamo acquisito in ogni parte del mondo.