L’illusione che un terzo accordo per il cessate il fuoco umanitario potesse essere implementato è durata poco. Ormai è passato un mese dal 27 settembre e Armenia e Azerbaigian continuano a contendersi con le armi il controllo del Nagorno-Karabakh.
Il tentativo americano
Lo scorso weekend a Washington si sono svolti una serie di negoziati tra il ministero degli Esteri armeno, Zohrab Mnatsakanyan, il corrispettivo azero, Jeyhun Bayramov, il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, e i rappresentanti di Francia, Russia e Stati uniti, i tre paesi co-presidenti del gruppo di Minsk dell’OSCE – l’ente internazionale preposto alla risoluzione del conflitto. Domenica sera (25 ottobre) è arrivata una dichiarazione congiunta del gruppo di Minsk in cui si annunciava che un nuovo cessate il fuoco umanitario sarebbe dovuto entrare in vigore lunedì alle 8 del mattino (ora locale).
Nonostante i tweet trionfanti di Pompeo e del presidente, Donald Trump, la tregua mediata dagli americani si è rivelata effimera quanto i due accordi di cessate il fuoco a matrice russa siglati il 10 e il 17 ottobre. Contrariamente ai casi precedenti, però, le parti si sono impegnate a proseguire i negoziati. I nuovi incontri dovrebbero – il condizionale è d’obbligo – iniziare a Ginevra domani (29 ottobre). In base a quanto dichiarato, nella città svizzera si dovrebbe discutere dei modi e dei tempi di un accordo “per una risoluzione pacifica del conflitto in Nagorno-Karabakh in linea con i principi di base concordati dai leader di Armenia e Azerbaigian”. Tali principi, noti anche come principi di Madrid, sono contenuti in un documento di raccomandazione emanato dall’OSCE nel 2007 e aggiornato negli anni successivi e costituiscono la base su cui si dovrebbero strutturare le trattative per una risoluzione della questione.
La situazione sul campo
Parlare di negoziati e di risoluzione pacifica del conflitto, però, può sembrare fuori luogo considerando quanto sta avvenendo nel Caucaso. I combattimenti non si sono interrotti e il Nagorno-Karabakh continua ad essere una zona di guerra. In base agli ultimi dati, 1009 sono i soldati armeni morti, centinaia le vittime civili da entrambe le parti, mentre Baku continua a non comunicare il numero dei propri militari caduti. Bisogna sottolineare che probabilmente queste sono cifre molto al ribasso e una tregua umanitaria consentirebbe almeno di recuperare parte dei cadaveri abbandonati sul campo di battaglia. Continuano anche i bombardamenti sugli insediamenti civili, colpiti, in particolare, Stepanakert, capitale de facto del Nagorno-Karabakh, e i distretti di Barda, Tartar e Goranboy in territorio azero.
Al solito le parti si sono accusate reciprocamente di aver violato il cessate il fuoco e risulta impossibile trovare il responsabile della continuazione delle ostilità. Per quanto riguarda la situazione sul campo, il centro informazioni dell’esercito armeno ha confermato, parzialmente, quanto rivendicato da Baku nei giorni scorsi, ovvero la conquista azera del settore meridionale della “cintura di sicurezza”. Si tratta di parte di quei territori che, pur non rientrando nella regione autonoma del Nagorno-Karabakh in epoca sovietica, erano finiti sotto il controllo armeno durante la guerra negli anni novanta e che Erevan considera essenziali per la difesa della regione separatista. Come scrivevamo la scorsa settimana, l’avanzata azera è arrivata a minacciare il “corridoio di Lachin”, una zona stretegicamente importante perchè ci passano i pochi collegamenti tra Armenia e Nagorno-Karabakh.
Come se non bastasse, l’area dove gli azeri hanno riscontrato i maggiori successi – e dove i combattimenti sono stati più aspri – si trova letteralmente a pochi metri dall’Iran, dal cui territorio è separata solo dal fiume Aras. Nelle settimane passate sono girati in internet diversi video ripresi dalla parte iraniana del confine a dimostrazione della precarietà della situazione per gli insediamenti abitati della regione. Non a caso, Teheran ha lanciato un proprio tentativo di mediazione – non una novità nelle dinamiche del conflitto – con il viceministro degli Esteri, Abbas Araghchi, che visiterà Ankara, Baku, Erevan e Mosca per promuovere l’iniziativa iraniana nella risoluzione del conflitto.
La politica
I leader di Armenia e Azerbaigian continuano a lanciare segnali contrastanti: da una parte si mostrano disposti a negoziare e usano una retorica vittimistica, dall’altra lanciano segnali belliscosi. Esempio in tal senso, è l’intervista di ieri per Rai 1 del presidente azero, Ilham Aliyev. Dopo aver accusato l’Armenia di aver provocato l’escalation, il capo dell’Azerbaigian ha dichiarato che Baku riprenderà il controllo del Nagorno-Karabakh e delle regioni intorno “a qualsiasi costo”. Nel frattempo, Anna Hakobyan, moglie del primo ministro armeno, Nikol Pashinyan, si è aggregata all’entusiasmo bellicista e ha annunciato che si unirà a un distaccamento di donne che combatterà per “la difesa della madre patria”.
In base a una teoria molta diffusa in Armenia, Aliyev sarebbe una marionetta in mano alla Turchia e, quindi dietro l’offensiva azera ci sarebbe la mano lunga di Ankara. La presenza di armamenti turchi è stata confermata, ma imputare la guerra esclusivamente alla Turchia è una visione lontana dalla realtà che, probabilmente, risponde alla logica di richiamare l’attenzione della per altro già attivissima diaspora armena nel mondo. Il conflitto del Nagorno-Karabakh è figlio principalmente di logiche interne all’Armenia e Azerbaigian, di violenze rimaste impunite e di persone indottrinate da anni di propaganda all’odio. Le storie di sofferenza legate al conflitto sono innumerevoli dall’una e dall’altra parte. Particolarmente drammatiche, quelle delle centinaia di migliaia di profughi costretti ad abbandonare le proprie case negli anni novanta. Il risultato di questi giorni drammatici saranno solo altre ferite che renderanno ancora più difficile quella che invece è una necessità per il bene dei due paesi: la convivenza tra armeni e azeri.