Non mi era mai successo di avere tanta difficoltà a far la valigia. Io viaggio. Spostarsi da un luogo a un altro è per me uno stato naturale e necessario della vita. Non è turismo, no! È una necessità. E questa volta la necessità è quella che mi porta a raggiungere il mio compagno prima del previsto, tallonata dal prossimo DPCM che potrebbe fregarmi, come la volta scorsa, il 10 marzo 2020, quando al risveglio, con la valigia pronta, mi è cascato il bazzino mentre guardavo Conte che, la sera prima aveva dichiarato l’Italia in Zona Rossa, a mia insaputa. Allora il Lockdown si chiamava così.
Questa volta non ho fatto il biglietto di ritorno perché sto ancora aspettando che Trenitalia mi rimborsi i viaggi internazionali comprati con buon anticipo e non realizzati durante la quarantena, iniziata con 15 giorni e protratta fino a giugno. Quando già ci sei, prorogare è un attimo.
Il mio compagno vive in Svizzera, la mia famiglia in Italia. Sono viaggi del cuore i miei, su una strada che, negli anni, ho già percorso con tutti i mezzi possibili. Non so quando tornerò perché non so come funzionerà il prossimo Lockdown che, ovviamente, non si chiamerà Lockdown. I Social Media Managers del governo troveranno un’altra parola, non ho dubbi.
Guardo la valigia vuota e aperta sul letto e mi chiedo: cosa mi porto? Ho già una parte di vestiti miei a casa di Georg e, se qualcosa manca, ho ancora qualche risparmio e non vado mica nel deserto. Cosa è più importante? Mi sento un po’ in guerra, in un film in bianco e nero in cui le decisioni vanno prese in fretta, prima che arrivino i militari a portarti via. Invece è che mi sono ridotta all’ultimo minuto, guarda tu la paranoia che scherzi mi gioca. Mi sento un po’ Puškin, non certo per l’elevatezza delle opere, ma per il confino forzato al sud della Russia. Anche se in realtà mi sto muovendo volontariamente, mi sento un po’ “espulsa”. Mi sento un po’ Emma Goldman, donna modello della mia giovinezza, in fuga dagli Stati Uniti per aver osato rompere tabù. Ecco, quello, sì, ho imparato a farlo presto. Non mi comparo certo allo spessore di questi personaggi, solo mi immagino cosa debbano aver provato in quelle circostanze, e così, tutti i migranti forzati, nel partire senza data di ritorno per effetto di decisioni del potere dominante.
Insomma, alla fine ho riempito la valigia di libri e adesso pesa una tonnellata.
Cambio anche borsa, ne prendo una più grande ma senza tasche interne. Allora metto tutti i documenti, incluso il passaporto che negli ultimi anni ha dormito saporitamente nel cassetto del comodino, dentro una bustina di plastica piatta, cosa mai fatta in vita mia. Mah!
Il primo treno che prendo, un regionale veloce, è quasi vuoto. C’è un essere vivo ogni otto posti. Il dispenser all’entrata del vagone è tornato a sputare a comando il disinfettante per le mani e la voce suadente dall’altoparlante, dopo ogni fermata, ci ripete che, se non indossiamo la mascherina su naso e bocca, chiameranno le forze dell’ordine e ci faranno scendere alla prima. Il controllore invece, passa gentile ed evita di avvicinarsi, di toccare alcunché e di approfondire la sua osservazione su come portiamo la mascherina. Qualche nasino fuori ogni tanto, in quel vuoto, non fa danni.
Scendo a Firenze e questa volta mi trovo catapultata in un mondo disciplinato da cui sono scomparse le cose e le persone. Restano i militari e le barriere, quelle fatte di nastri e quelle di pareti trasparenti. I militari sono armati e pattugliano le entrate e il salone esterno, la polizia e il personale della stazione sono ai gate di ingresso ai binari e all’interno della barriera. La segnalazione è sempre confusa e poco adeguata, ci sono avvisi che risalgono al primo lockdown ma, dato che c’è pochissima gente, tutto è più facile. Inoltre i militari sono piuttosto gentili e disponibili se chiedi un’informazione, come anche il personale della stazione. Non hanno molto da fare.
Una ragazza risulta febbricitante allo scanner piazzato in alto, accanto al gate di ingresso e che viene attivato in modo casuale. Per verificare che superi davvero la temperatura consentita, provano su di lei tutti i dispositivi che hanno, sparandole raggi sulla fronte e sulle tempie e la trattengono venti minuti, mentre gli altri passeggeri entrano a piacere dopo il controllo del biglietto. Alla fine non la lasciano partire e qualcuno viene a prenderla. Militari, polizia e personale di stazione ne parlano ancora per un po’ in piccoli gruppi. Forse è l’evento della giornata che, a ben vedere, scorre abbastanza lenta e noiosa sotto un cielo grigio che non ha ancora deciso cosa fare.
Sul Frecciarossa c’è subito una sorpresa. Passano due hostess a distribuire il kit sanitario composto da: mascherina chirurgica e bustina di gel disinfettante in confezione di cellophane, una lattina di acqua naturale con un bicchiere di cartoncino coperto di pellicola trasparente, un poggiatesta di tessuto-non-tessuto ripiegato e confezionato nel cellophane. Il tutto sta dentro a una bella busta di carta che, però, poi passano a ritirare per buttarla via. Io non gliela rendo, la ripiego gelosamente e la riutilizzerò fino a romperla! E poi è carina: Rosso Coronvairus Fashion.
Stiamo ancora correndo sul filo del “fai la cosa giusta” fra riutilizzo, spreco, ecologia, salute e marketing. Il cielo è grigio piatto sulla pianura padana ma non piove. Stiamo andando verso nord, niente di nuovo.
Milano Centrale. Qui ormai sono tutti a loro agio con le mascherine. Si muovono in modo disinvolto come esperti mannequins sfoggiando il modello “chirurgico”, quello “ffp2” e quello di stoffa, rigorosamente nera. La mia mascherina di tessuto-non-tessuto color ciclamino, cucita a marzo scorso con le mie manine è una botta di colore in mezzo a questo paesaggio omologato. Qui i militari sono accompagnati da agenti di polizia Italpol vestiti di nero e con accento del sud, bravi a vietare gli accessi in modo scortese, molto meno a spiegare come mai ci sono cose che, nonostante l’ordine e la disciplina imposti e ormai universalmente accettati in questa stazione, non funzionano. Ascensori rotti. Bar chiusi e non segnalati, per cui fai le scale (con la mia pesantissima valigia!) e trovi una bella transenna.
Il bar aperto alla fine del lungo salone davanti alla barriera con i gate di entrata e uscita, quello con lo spazio “recintato” per il servizio al tavolo, fa pagare tre euro un ginseng alto. Come in aeroporto. Però c’è un solo barista che fa tutto. Mentre prendo posto gli spiego gentilmente che non ho fretta, ma lui è un razzo-missile-con-circuiti-di-mille-valvole e arriva immediatamente con la tazza. Allora sorseggio il mio dolcissimo ginseng mentre scrivo. È pure riuscito ad avvisarmi di non aggiungere zucchero, come se sapesse che a me piace poco dolce… mi ha letto il pensiero? Frullando a gran velocità ha finito per sviluppare doti telepatiche. È duro lavorare in questo contesto. Questa volta però, quando me ne vado, non gli riporto la tazzina al bancone. Tre euro!
Passo il gate e nella sala antistante i binari, sull’enorme schermo in alto, tra pubblicità e informazioni sanitarie, staglia la promozione del sequel di Borat, con un discutibile ma esilarante utilizzo della mascherina salva vita.
Paradossalmente la nota di confusione libertaria arriva dal treno svizzero. Capisco, parlando con l’inserviente che sta dando l’aspirapolvere sulla moquette nera dell’ampio vagone, che il treno in partenza da Zurigo si è rotto e lo hanno sostituito con questo, che ha un’altra configurazione. Non torna più niente con le nostre prenotazioni, difatti la carrozza n.7 dove dovrei trovare il mio posto si è trasformata in vagone ristorante! Un altro inserviente, con un tono fra il socievole e il familiare, e l’erre moscia tedesca, ci dice “qui siamo in Svizzera, mettetevi a sedere dove volete su tutto il treno, dove c’è posto” e, intento, continua a pulire. Fra i passeggeri ci passiamo questa preziosa informazione in tutte le lingue possibili e in modo cordiale, ogni volta che sale qualcuno col biglietto in mano e il punto interrogativo sulla fronte. Pian piano si riempiono anche i sedili adiacenti, “tanto siamo tutti mascherati, nel caso servisse a qualcosa…” sento commentare un uomo alle mie spalle. Io condivido la mia aria con una bella bicicletta legata artigianalmente davanti al mio sedile. Niente cartelli rosso vivo, niente divieti di accesso o piedini e frecce disegnati sul pavimento.
Il macchinista ha una guida un po’ sportiva e fa un paio di frenate al limite, ma il treno è bellissimo, pulitissimo e con un bagno di vero lusso! Qui il controllore si avvicina e prende in mano il mio biglietto. Al padrone della bici piazzata davanti a me – un uomo giovane dal perfetto inglese accentato all’italiana – i doganieri a Chiasso chiedono di vedere i documenti e poi se ne vanno mentre lui fruga nello zaino e risponde: “Si, sono italiano”, alla loro domanda lanciata al vento. Tira fuori una bustina di plastica identica alla mia, con dentro i documenti. Ci guardiamo con un’espressione fra lo stupito e l’amichevole, lui rimette tutto a posto dopo qualche secondo e io, con la frequenza emotiva che mi esce familiare, data la coincidenza, gli ammicco: “Va bene così”.