Torno a trovare don Virginio Colmegna dopo un anno; sembra passato un secolo. Mi accoglie. Basta una prima domanda e non smette di parlare per 35 minuti. E’ un fiume in piena, salta da un tema all’altro, ansioso di non dimenticare nulla. Gli chiedo a quel punto se è più la voglia o il bisogno di parlare. “Entrambe le cose – dice- ma soprattutto voglio riflettere”. Lo fa a voce alta. Più volte durante l’intervista nomina gli anziani come grossa problematica, sottovalutata, di cui lui stesso fa parte con i suoi 75 anni. Ha comunque ancora molta carica e l’urgenza sembra aumentarla. Quando ci lasciamo, mentre spengo la registrazione, è già al telefono. Mi scuso con lui, ma ho dovuto fare una sintesi. Spero di aver colto il senso delle sue parole, molto articolate.
Don Virginio, che cosa è successo?
Il mondo è attraversato da questo virus che sta cambiando gli stili di vita, le riorganizzazioni sociali, i pensieri. Si apre una riflessione impegnativa che ci fa vedere i nostri limiti, le nostre fragilità e da qui la frase: “Nulla sarà più come prima!” Il virus ha messo a nudo le debolezze del sistema, le disuguaglianze. Lo stesso Papa, con l’ultima enciclica, ha messo in discussione il “paradigma tecnocratico”, il sistema capitalistico.
Noi come “Casa della carità” abbiamo risposto come abbiamo potuto a quella fase, con continui aggiustamenti. Abbiamo dovuto protestare per avere i tamponi. Abbiamo avuto 26 positivi, gente fragile, con problemi psichici. Abbiamo deciso di tenere loro e trovare nuovi spazi per gli altri. Abbiamo dovuto ridurre gli interventi, la casa prima era aperta 24 ore su 24. Abbiamo fatto il possibile per mantenere le relazioni. Ci siamo messi molto in discussione. E’ stata una sfida dura, ma anche un momento straordinario. Lo sforzo degli operatori e delle operatrici è stato enorme.
Si è evidenziata ancor di più la problematica degli immigrati. Facciamo parte di “Ero straniero” e “Io accolgo”, cercando di fare le dovute pressioni perché la legislazione cambi davvero. Deve cambiare soprattutto l’impianto culturale avvelenato che sottende a decreti come quelli Salvini, che è stato troppo timidamente modificato. L’intervento umanitario di salvare vite in mare viene prima di qualsiasi appartenenza politica e prescinde da tutto. Stiamo partecipando alla raccolta fondi per varare un’altra nave che vada in quella zona del Mediterraneo. Tutto ciò sappiamo bene che non risolve il problema e per noi la precedenza va ai corridoi umanitari, a una politica europea diversa, rompendo le barriere, con la legittimità e il diritto di poter emigrare. Non vogliamo essere ridotti a “testimoni del terzo settore”, a coloro che “fanno le buone azioni”! Proprio perché sentiamo una solidarietà che prende il cuore, la carne, la pelle, i sentimenti, non possiamo stare zitti in questa battaglia che è prima di tutto CULTURALE. Lo dice anche il Papa nell’ultima enciclica: l’aiuto umanitario è importante, ma è fondamentale combattere le ingiustizie alla radice.
Il virus sta mettendo in luce l’illusione di “comandare”; bisogna passare invece ad un atteggiamento di “custodia”, di “cura”. Lo slogan rimane “Nulla deve essere come prima” e invece stiamo assistendo a una serie di forze che vogliono cercare di tornare “come prima”. Al contrario, deve scoppiare una reciprocità che scalzi l’individualismo e “il mercato”, che vanno messi in discussione. E’ necessaria un’irruzione di radicalità, diversamente si rischia di tornare come prima. In questa profonda riflessione bisogna recuperare il linguaggio dell’arte, della poesia, ma soprattutto la capacità di ascoltarsi per creare vero dialogo.
Contemporaneamente vanno fatti i piccoli passi necessari a evitare la possibile angoscia collettiva che ci entra dentro. Come dicono i giovani di Fridays for future, la questione climatica è centrale e ridurre le emissioni è urgente. Ci vuole un cambiamento antropologico forte che metta al centro tutto il mondo dei viventi, non più solo l’uomo. Una nuova epoca sta germogliando e il parto non è facile.
C’è tutto il discorso poi sulla salute delle persone, salute che non va ridotta alla “possibile ospedalizzazione”, ma parte invece dal diritto alla casa, al lavoro, all’istruzione, alla buona alimentazione. Abbiamo una grande responsabilità, il cambiamento è necessario. La medicina deve essere prima di tutto territoriale, al centro ci deve essere la persona e non il servizio. Dobbiamo de-istituzionalizzare. Basta coi grandi contenitori dove buttare e controllare la povertà, bisogna invece liberare la soggettività che c’è in ognuno di noi. Basaglia fece un lavoro straordinario e oggi stanno “tornando i manicomi”, e anche le RSA rischiano seriamente di far parte di questa concezione securitaria, che chiude. La salute è un diritto costituzionale centrale universale.
Poi c’è la spiritualità: il recupero del SENSO. Farà parte anche lei dell’impeto del cambiamento. Mentre il sistema informativo e comunicativo è al collasso e il senso sfugge sempre di più.
Cosa ne pensi dell’apertura del CPR a Milano?
Quella roba lì non ci deve essere. Ora stiamo cercando di “presidiare” questo luogo per individuare le illegalità che lì si commettono. Coloro che in questi giorni si sono ribellati all’interno del CPR mostrano come queste persone che hanno attraversato il mare, con tutte le loro sofferenze, fanno il possibile per non essere rimpatriati. Dobbiamo mettere insieme pezzi di società plurali, ma chiari negli obiettivi: quella roba lì non ci deve essere. Scrivere comunicati, firmare appelli non basta. Nessuno deve stare in prigione, non hanno commesso reati. Stiamo ragionando con il garante, la battaglia è all’inizio ed è dura. Così come bisognerà trattare fino in fondo lo ius soli o lo ius culturae, sono temi collegati. Bisogna rovesciare la cultura che fa dell’immigrato automaticamente un clandestino, c’è bisogno di una cultura accogliente, lasciando stare il “buonismo”. Tra l’altro vi sono mistificazioni: tutta l’attenzione si concentra sugli sbarchi, quando quell’ingresso riguarda il 5% degli arrivi.
Abbiamo bisogno di una rivoluzione culturale. Ci vuole pazienza, restare uniti e andare avanti.
Ma qualcuno vuole mantenere le cose come stanno
Più di qualcuno. Non siamo ingenui. Il conflitto ci sarà. Nella nostra mentalità associamo il conflitto a violenza, guerra, uccisione. Ma lo stesso Papa Francesco cita Martin Luther King, Desmond Tutu, Gandhi, Charles de Foucauld: il tema della nonviolenza è centrale. Così sosteniamo un servizio civile obbligatorio che formi in questo campo. Così siamo per il No alla guerra e per la riduzione delle spese militari. Certo il conflitto ci sarà, c’è anche nella chiesa, in Vaticano. La corruzione non conosce confini. Dobbiamo raccogliere una capacità di consenso che permetta di vivere la radicalità dello scontro. Ma per lavorare per il futuro dobbiamo valorizzare il presente. Ci vuole una formazione diffusa nelle scuole, tra i giovani, ma ci vuole anche una vertenzialità diffusa nel mondo del lavoro. Vanno sostenuti i movimenti popolari, uscendo dalla nostra visione “euro-centrica”. Il colonialismo in Africa ha lasciando profondi segni che ci sono tuttora attraverso la presenza delle multinazionali. Poi c’è Il tema della riconversione dell’industria bellica che è importante, a suo tempo lo trattammo all’Aermacchi di Varese: come si fa a “produrre bombe che vanno ad ammazzare?”, una coscienza etica che ha dilaniato molti lavoratori.
Da buon cristiano cosa mi dici dei “paradisi fiscali”?
Sono una ferita aperta e sanguinante. Abbiamo una classe dirigente che spesso predica bene e razzola male, che nasconde i soldi nei paradisi fiscali o permette che altri lo facciano. Come la “guerra”, non sono teorizzati da nessuno, ma vengono praticati. La battaglia contro di essi è legittima, doverosa, fondamentale. Queste battaglie devono uscire da una fase di “testimonianza”, devono crescere per incidere politicamente. Ci sarebbe bisogno di organismi internazionali, ma in questo momento l’ONU non conta niente, basta guardare il conflitto Israele-Palestina.