Alla vigilia della presentazione al BUK Festival 2020 a Modena del volume “Paesaggi Kosovari, 1998-2018. Il patrimonio culturale come risorsa di progresso e opportunità per la pace”, Multimage, Firenze, 2018.
Documenti declassificati della Biblioteca Presidenziale dell’ex presidente statunitense, Bill Clinton, rivelano, secondo quanto riferito dagli organi di informazione serbi (Novosti, poi ripresa da altre testate), quanto già in più circostanze messo in luce dalle più avvedute analisi dei ricercatori storici e degli analisti politici: vale a dire che i bombardamenti contro la Jugoslavia erano stati accuratamente premeditati e organizzati, secondo un’attenta regia politica, tale da ben poco avere a che vedere con le ventilate motivazioni della difesa dei diritti umani e della prevenzione di una catastrofe umanitaria; che l’ultimatum contro le autorità jugoslave era stato impostato ed era di fatto pronto ben sei mesi prima del bombardamento contro la Jugoslavia; che era stato pianificato perfino un dettaglio tattico, vale a dire che l’aggressione avrebbe dovuto prevedere due fasi, una, preliminare, di attacchi missilistici specifici, limitati, «chirurgici», come si sarebbe detto con l’orrenda terminologia di guerra, e poi un’altra, massiccia, in caso di ulteriore prosecuzione della campagna e sviluppo dell’escalation.
Come riferisce infatti Novosti, sei mesi prima dell’inizio dei bombardamenti e della campagna di aggressione contro la Jugoslavia, che sarebbe stata inaugurata il 24 marzo del 1999, vale a dire il 24 settembre del 1998, Samuel Berger, allora consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, informò il presidente Bill Clinton sui preparativi e sugli sviluppi di un ultimatum contro la Jugoslavia. In base ai documenti, adesso finalmente declassificati, con l’obiettivo di «fermare la catastrofe umanitaria in Kosovo e preparare una soluzione politica», fu proposto di avanzare e sviluppare una «minaccia credibile di azione militare da parte della NATO». In un punto ulteriore viene precisato, come riportato dagli organi di stampa serbi, che «ciò significa esercitare pressioni sulla NATO affinché decida di emettere un ultimatum chiedendo a Milošević di intraprendere passi concreti per risolvere la crisi umanitaria e politica, o, in caso contrario, affrontare una risposta militare. Affinché l’ultimatum sia credibile, noi e i nostri alleati dobbiamo essere preparati a portare a termine attacchi missilistici». E ancora, «se Milošević non accetta di obbedire, se persiste, dovremmo essere pronti a effettuare attacchi aerei di più ampia portata per impedire la sua capacità di condurre operazioni militari e operazioni di sicurezza in Kosovo», secondo le raccomandazioni di Berger.
Era in corso, proprio in quel periodo, non solo uno dei momenti più tesi della controversia serbo-albanese in Kosovo, ma anche una delle fasi decisive, in cui le autorità jugoslave stavano iniziando a recuperare terreno nella provincia meridionale della Serbia, costringendo la guerriglia armata separatista dell’UÇK (Esercito di Liberazione del Kosovo) ad arretrare da alcune posizioni. Tra la metà di agosto e la metà di settembre del 1998, i separatisti avevano esteso le loro posizioni: a metà agosto l’UÇK aveva portato un’offensiva tra i distretti di Prishtina e Peć/Peja, il 1 settembre aveva avviato una nuova offensiva nel distretto di Prizren; tra la prima e la seconda settimana di settembre, l’UÇK estende in modo significativo, per la prima volta, le sue posizioni, anche verso il Nord del Kosovo, e sue attività sono registrate a Podujevo, non lontano da K. Mitrovica. Sono questi i presupposti, sul campo, delle attività militari e di polizia delle autorità jugoslave della seconda metà di settembre nel Kosovo interno e nella Drenica (un’ampia parte della zona che per i Serbi è la «Metohija», dove si trovano, a rischio, i luoghi memoriali della Cristianità Ortodossa, a Peć, a Dečani, a Prizren, con i patrimoni dell’umanità UNESCO dello stupefacente Monastero di Dečani, del Patriarcato Ortodosso di Peć e della Cattedrale di Nostra Signora di Ljeviš, la celebre «Bogorodica Ljeviška», a Prizren).
È interessante notare come l’amministrazione statunitense, in base a quanto emerge dai documenti declassificati, si muovesse, già all’epoca, sostanzialmente al di fuori della cornice di legalità internazionale. Proprio quei giorni, il 23 settembre del 1998, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adottò, in base al Capo VII della Carta delle Nazioni Unite, la risoluzione 1199 (1998), la quale, esprimendo preoccupazione per le notizie inerenti al vasto numero di sfollati a causa di «uso eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza serbe e dell’esercito jugoslavo», chiedeva che «tutte le parti» cessassero le ostilità e attivassero un cessate il fuoco e, in particolare, alle autorità jugoslave di intraprendere le misure necessarie «verso il conseguimento di una soluzione politica alla situazione in Kosovo», e alla leadership albanese kosovara di «condannare tutti gli atti terroristici, e mettere in evidenza il fatto che la comunità albanese kosovara persegua i propri obiettivi esclusivamente con mezzi pacifici». Il giorno dopo, 24 settembre, la NATO emetteva un «ordine di attivazione» portando le forze dell’Alleanza a un livello superiore di preparazione per un’operazione militare nella regione. I responsabili della politica estera statunitense concordavano, tuttavia, nella convinzione che una strada fatta di iniziative umanitarie e di azioni diplomatiche non avrebbe portato da nessuna parte: il negoziato dell’ambasciatore Christopher Hill con Milošević e la parte albanese kosovara non avrebbe prodotto un accordo accettabile a fronte delle «azioni brutali delle forze di sicurezza serbe combinate con gli attacchi dell’UÇK». D’altra parte, si riconosce anche che la risoluzione delle Nazioni Unite avrebbe potuto aiutare ad istituire una base politica per l’uso della forza anche da parte degli alleati NATO.
Da una parte, in base a quanto riportato, la diplomazia statunitense era costretta a riconoscere che la risoluzione delle Nazioni Unite non consentiva e non poteva consentire un’azione militare; dall’altra, ciononostante, l’amministrazione USA già si muoveva in direzione dell’escalation. «Dare sostegno agli alleati richiederà un grande sforzo, soprattutto con la Russia, che si oppone fermamente all’uso della forza. Molti alleati vorranno un’altra risoluzione delle Nazioni Unite che autorizzi l’uso della forza prima che la NATO emetta un ultimatum». E d’altra parte, non solo ottenere, ma anche mantenere il consenso degli alleati in un’operazione militare di ampia portata si sarebbe rivelato problematico, soprattutto nel caso in cui Milošević e le autorità federali jugoslave avessero continuato la strada politica e acconsentito ad alcune condizioni. Sappiamo, infatti, come sarebbe andata a finire. Il ministro degli esteri italiano dell’epoca, Lamberto Dini, avrebbe, tempo dopo, riconosciuto che la cornice negoziale predisposta dagli Stati Uniti a Rambouillet, tra il 6 febbraio e il 23 marzo del 1999, si sostanziava in proposte e condizioni, per la parte serba, che nessuno Stato avrebbe mai potuto pensare di prendere seriamente in considerazione. Il Guardian, tempo dopo, avrebbe riferito di alcune prese di posizione dell’epoca. «La priorità americana – come disse un funzionario britannico – era arrivare alla fine con i serbi come i cattivi». Il presidente serbo, Milan Milutinović, che guidava la delegazione jugoslava, non poté che constatare che «ci avete tolto ogni possibilità di negoziare».
Senza alcuna risoluzione delle Nazioni Unite, al di fuori di qualunque cornice di legalità e di giustizia internazionale, il 24 marzo del 1999 sarebbero iniziati i bombardamenti: 78 giorni di guerra (che ovviamente si volle fare passare per «intervento umanitario») il cui numero totale di vittime, peraltro, non è mai stato determinato. Si stima siano state uccise 2.500 persone (secondo altre fonti, il totale di morti fu di 4.000), con 89 bambini, e più di 12.500 persone ferite, con danni materiali totali stimati in decine di miliardi di dollari. Una stima ha computato il danno di guerra complessivo in 100 miliardi di dollari; dopo oltre vent’anni – è appena il caso di notare – l’intero PIL della Serbia, a parità di potere d’acquisto, è di circa 105 miliardi di dollari. Quasi nessuna città in Serbia ha potuto evitare di essere presa di mira o di essere colpita durante la guerra. I bombardamenti, secondo più recenti stime, hanno distrutto o danneggiato 25.000 unità abitative, 470 chilometri di strade e 600 chilometri di binari ferroviari; e poi 14 aeroporti, 19 ospedali, 20 centri sanitari, 18 scuole materne, 69 scuole, 176 monumenti e siti di rilevanza culturale, 44 ponti danneggiati; i ponti furono tra i bersagli privilegiati della guerra, evidentemente “umanitaria”: 38 furono completamente distrutti. Quasi ridondante ricordare qui l’orribile “comunicazione di guerra” della NATO, una propaganda farcita di infrastrutture civili spacciate per «legittimi» obiettivi militari (ponti, strade, fabbriche…) e satura di odiosi calembour sui «danni collaterali». Durante l’aggressione, furono effettuati 2.300 attacchi aerei su 995 strutture in tutto il Paese; furono sganciati 420.000 missili per complessive 22.000 tonnellate; e ancora, sempre per restare in tema di intervento “umanitario”, 37.000 «bombe a grappolo», e furono anche usate munizioni, vietate da tutte le convenzioni internazionali, all’uranio. La contaminazione continuerà a mietere vittime nel corso delle generazioni. Ed un rompicapo, ancora irrisolto, di nome Kosovo.