Ha del sorprendente la cerimonia ufficiale con la quale «il presidente Trump assiste all’atto della firma con il presidente della Repubblica di Serbia e il primo ministro del Kosovo». Nella fotografia di rito, lascia interdetti il cerimoniale: al centro la grande scrivania presidenziale di Donald Trump, ai lati, su piccole scrivanie che sembrano poco più che banchetti, Aleksandar Vučić e Avdullah Hoti: tanto per mettere in chiaro come si vuole che stiano le cose, e, per certi aspetti, anche come la Casa Bianca vede il proprio ruolo e i propri rapporti nella vicenda balcanica.
Nel discorso del presidente Trump, lascia stupiti il tono delle parole: si parla di un accordo storico, di un accordo, per la prima volta nella storia, di portata generale, ovviamente della leadership e del coraggio di tutti i protagonisti, e perfino della visione di Trump, di immaginare la strategia della cooperazione economica tra Belgrado e Prishtina come via maestra per la normalizzazione dei rapporti e come viatico principale per la pace e la stabilità nella regione. Già di tutto questo è necessario fare un’ampia scrematura per arrivare alla verità: quello che è stato firmato dal presidente serbo e dal premier kosovaro non è un comprehensive agreement, non è un accordo di portata generale, e il tema della cooperazione economica e della cooperazione tecnica come pre-requisito per accordi di più ampia portata e di «normalizzazione» non è affatto nuovo, nella società civile di ambo le parti se ne parla da tempo, è uno dei temi-chiave anche delle discussioni in ambito diplomatico, per lo meno dal 2014, all’indomani della stipula del primo comprehensive agreement, quegli Accordi di Bruxelles (2013) che forse, proprio perché più ambiziosi o, semplicemente, impegnativi, sono rimasti, in buona parte, lettera morta. Ma c’è di più: dopo la cerimonia con tanto di telecamere, conferenza stampa e parole altisonanti, si scopre che quello che è stato presentato come “accordo”, “accordo” non è.
Organi di stampa hanno messo in chiaro che Serbia e Kosovo non hanno firmato un documento comune, ma hanno apposto le rispettive firme su due documenti distinti, quasi identici, vale a dire con il medesimo contenuto tranne che sul punto relativo a Israele, come vedremo tra poco, entrambi i documenti con il medesimo titolo («Normalizzazione Economica») e ciascuno con una nota introduttiva da parte del presidente Trump. Non si tratterebbe, cioè, di un accordo, ma di uno scambio di protocolli, che impegna le parti esclusivamente per il testo di propria competenza, e le impegna sui contenuti comuni separatamente l’una dall’altra, a non voler ritenere che si tratti, piuttosto, di un mero scambio di lettere o di una intesa, addirittura, poco più che informale tra le parti.
Non poteva esserci distanza maggiore tra la propaganda trumpiana e la realtà, per una mossa che sicuramente non manca di valore politico, ma che sembra essere tutta da interpretare nel senso di mettere una bandierina (a stelle e strisce) nella vicenda diplomatica in corso da tempo nei Balcani (soprattutto a svantaggio della Unione Europea che ufficialmente ha il compito di facilitare la mediazione tra Belgrado e Prishtina) e di mettere a segno un punto nella campagna presidenziale di Trump (peraltro già in rimonta nei sondaggi ).
Cosa dicono allora questi protocolli? Stabiliscono 16 punti, tutti legati alla cooperazione economica, in particolare sulla implementazione degli accordi Belgrado-Prishtina sulle infrastrutture, specie per quanto attiene ad autostrade e ferrovie (si fa riferimento all’Autostrada della Pace, al collegamento ferroviario Niš-Prishtina e Prishtina-Merdare, all’operatività del punto di transito di Merdare, al sostegno al sistema delle piccole e medie imprese e all’apertura di un ufficio dello US International Development Finance Corporation a Belgrado). Poi si concorda una «Mini Schengen», come proposta da Serbia, Albania e Macedonia del Nord nell’ottobre del 2019, il reciproco riconoscimento dei diplomi e dei certificati professionali, e l’impegno a «diversificare» le proprie fonti di rifornimento energetico, punto che segue immediatamente quello, delicatissimo, circa la definizione di uno studio di fattibilità per la condivisione del bacino di Gazivoda, fonte di acqua e di energia, poco distante da Zubin Potok, nel Kosovo del Nord amministrato di fatto dalle autorità serbe. Poi un punto strategico per l’amministrazione Trump, vale a dire l’impegno a «proibire l’uso di strumentazione 5G proveniente da fornitori inaffidabili», chiaro riferimento non scritto al conflitto economico in corso sul 5G (e non solo) con la Cina, per nulla assente, del resto, nel teatro balcanico. Infine, una serie di punti, di portata politico-economica, quali l’implementazione delle decisioni giudiziarie riguardanti la Chiesa Ortodossa Serba, la restituzione dei beni sottratti nel periodo della Shoah e la restituzione di proprietà ebraiche, l’impegno nella ricerca e nell’identificazione degli scomparsi, l’impegno ad una soluzione sostenibile per i rifugiati e gli sfollati, l’impegno a completare la depenalizzazione dell’omosessualità, e quello che è stato sintetizzato, nella cerimonia della firma, come la sospensione della campagna reciproca di «riconoscimento e de-riconoscimento»: il Kosovo sospende per un anno le proprie richieste di adesione alle Organizzazioni Internazionali, la Serbia sospende per un anno la propria campagna per il ritiro del riconoscimento del Kosovo da parte dei Paesi che l’avevano riconosciuto come Stato (la posizione internazionale del Kosovo è infatti disciplinata dalla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1244 del 1999 e dal Parere non vincolante della CIG del 2010).
Come si è accennato, Israele è il convitato di pietra di questo “scambio”: il punto che differenzia i due testi riguarda proprio Israele; entrambe le parti si impegnano a designare Hezbollah come organizzazione terroristica, la Serbia a trasferire la propria Ambasciata a Gerusalemme ( primo Paese europeo a farlo, Tel Aviv è la capitale dello Stato d’Israele) entro il 1 luglio 2021 e il Kosovo a riconoscere ufficialmente, a tutti gli effetti, Israele (primo “Paese” a maggioranza islamica a farlo) senza, peraltro, indicare una data. Non sfugge il senso di queste misure; resta il dubbio che una prospettiva di dialogo e di pace sia stata, per quello che valgono tali protocolli, sacrificata all’altare degli interessi (e della campagna trumpiana) a stelle e strisce.