Era una comunista. Ha attraversato il secolo scorso ma non si è persa nulla dei primi venti anni del ventesimo. L’anno passato, in aprile, scrisse su sessualità e filiazione, partendo da sé per affrontare temi difficili e complicati di dibattito nel femminismo. “Partendo da sé” come aveva appreso dal femminismo degli anni ’70.
“Dunque sono sicuramente una donna, e un po’ qualunque, come milioni di altre donne da quando esistono le civiltà greca, romana e giudaica, che sono le principali dalle quali una donna qualunque europea soprattutto deriva. Di particolare c’è che ho sempre avuto una vera passione politica; in suo nome ho dato vita al “manifesto”, gruppo politico italiano, poi anche quotidiano autofinanziato assieme – fra altri – a Lucio Magri, a Luigi Pintor e Luciana Castellina, che esce ancora oggi. Posso aggiungere che sono una marxista ortodossa, adepta a suo tempo anche di quel marxismo-leninismo, che giustamente si accusa di essere “volgare”, ma che mi ha aiutato anch’esso a capire com’era fatto il mondo e a diventare comunista: lo sono rimasta, non sono dunque di formazione condivisa dai più né in onda con il tempo.” […]
“Quanto al marxismo è una scelta personale e non pretende di essere condivisa: serve a spiegare perché ho esitato un attimo a definirmi “femminista” anche se credo di esserlo: non c’è battaglia delle donne che io non condivida, talvolta con qualche riserva; non ne ho, penso, nei confronti del testo fatto circolare ora da “Non una di meno”, che forse avrei scritto in modo a momenti diverso, come mi permetto di dire oggi.”[1]
Così si presentava Rossana l’anno scorso, battagliera, parlando di sé come se pochi e poche la conoscessero, con quella civetteria altera che la caratterizzava. Piangendo sulla sua morte, oggi, capisco perché la consideravo indistruttibile, perché non ho mai messo in conto che lei non ci fosse più.
Non voglio qui descrivere il suo percorso politico nel PCI e con il Manifesto (altri lo faranno molto meglio di me), neppure le sue battaglie con il giornale da lei fondato (coloro che hanno lavorato e si sono confrontati nel tempo con lei ne delineeranno le vicende) e nemmeno fare un elenco dei libri che ha scritto, che pure hanno segnato diverse generazioni di compagne e compagni: cercherò di raccontare quello che Rossana è stata per me, a partire dalle vicende del 7 aprile, a Parigi, a Padova, a Roma. E lo farò senza un ordine cronologico, fidandomi dell’affetto che ho provato per lei e tentando di fare assegnamento sulla memoria.
La prima immagine che mi viene in mente è quella del Convegno che avevo organizzato a Padova su “Donne Politica Utopia” nel 2010, che volevo fosse in suo onore. Mi aveva detto tempo prima che a Parigi soffriva di solitudine, molti amici suoi e di Karol, parigini, se n’erano andati e pochi italiani andavano a trovarla. Al convegno avevo invitato persone che avevano tessuto rapporti diversi con lei in varie fasi della sua vita, da Mario Tronti, a Luciana Castellina, Maria Luisa Boccia, Ida Dominijanni, Rada Ivekovic, Lea Melandri, Etienne Balibar e molti altri e altre. Il sindaco di Padova, del Pds, propose di dare a Rossana le chiavi della città. Lei rifiutò sdegnosamente, come del resto rifiutò che il convegno fosse in suo onore, mettendomi in un piccolo imbarazzo, visto che i finanziamenti per il convegno li avevo chiesti al Comune e all’Università. Ma il suo intervento: “Femminismo e politica, una relazione tempestosa” fu magnifico. Così era Rossana, dura, poco malleabile, ma generosa di sé.
Quando Karol Kewes, suo marito, incominciò a perdere la vista, Rossana si diede da fare per cercare tutti gli strumenti tecnologici possibili che lo aiutassero a scrivere e a leggere, e quando non riuscì più del tutto a vedere, ricominciò con testardaggine a cercare tutto quello che potesse funzionare con l’udito e il tatto. Con devozione e amore.
La sera in cui fu colpita dall’ictus, restò stesa sul divano, semi paralizzata, fino al mattino, senza chiamare nessuno, per non disturbare, probabilmente compromettendo delle possibilità di miglior esito delle successive cure. Non voleva essere di peso, o di disturbo, all’organizzazione della casa. Non ammetteva di dipendere dalle vicende del suo “corpaccio”, come lo chiamava. L’orgoglio dell’indipendenza spinta al limite. Ma prima di partire per la casa di cura in Svizzera, organizzò perfettamente la sopravvivenza di Karol, che restava a Parigi. Era consapevole della necessità della cura di un corpo non autonomo.
Una volta che venne a trovarmi a Padova, si incuriosì del fatto che io ballavo il tango, e volle che indossassi un vestito di cui le avevo parlato, comprese le scarpe con i tacchi alti: con grande allegria mi prese in giro per quello che convenimmo essere un travestimento, tanto era diverso da come ci vestivamo abitualmente. Lei amava i golfini e i maglioncini di cachemire, spesso di forme e colori severi. In uno dei suoi traslochi romani ritrovò un cappello di volpe che le era stato regalato in Russia non ricordo da chi: decise che doveva starmi bene, e me lo regalò, facendomelo portare a Padova da un giovane compagno.
I nostri incontri tra Roma e Parigi, sia a pranzo o per un the, partivano sempre dall’idea di fare “come le signore”, da una frivolezza che non le apparteneva e che non riusciva a mantenere, coinvolgendomi in discussioni sul tempo presente, sul futuro, sulla politica, sul femminismo. Non eravamo sempre d’accordo, ma l’acutezza delle sue analisi, sia sulla politica interna italiana che su quella internazionale, mi è sempre stata utilissima per capire aspetti non sempre chiari del presente e del passato. Ascoltavo a bocca aperta i racconti dei suoi incontri con personaggi che avevano fatto la storia, da Fidel Castro a Gorbacev, passando per i grandi leader della sinistra italiana ed europea, e tutti i più grandi nomi della cultura che aveva intervistato e che erano divenuti amici suoi.
Sul femminismo e le sue vicissitudini italiane e mondiali era insaziabile di domande: c’era qualcosa che sentiva di aver perso, non certo nella consapevolezza dell’essere donna, ma in quella magia di riconoscimenti reciproci e di solidarietà di genere che spesso sboccia nel femminismo e che crea fronti compatti più carnali e esperienziali della lotta di classe, come l’estensione delle lotte transnazionali degli ultimi anni sta dimostrando.
“Nel partito comunista – che forse era ancora il luogo migliore in cui stare per una donna – quando ci si trovava a dover nominare una commissione su una certa direttiva, si faceva una lista di nomi e venivano fuori sempre Pajetta, Ingrao, Rossanda e poi, dicevano, “ci vuole una donna”. E io timidamente facevo notare che ero una donna. “No, no, ci vuole una donna vera” era la risposta” [2]. Ha raccontato spesso con grande ironia il suo rapporto di donna con il partito. Ma ho sempre avuto l’impressione che trattasse il femminismo come se fosse una bestia aliena, da cui era attratta e respinta, ne aveva un po’ paura e nello stesso tempo ne subiva il fascino.
Ultimamente mi chiedeva con insistenza di NUDM, era conquistata dall’ampiezza dello sciopero globale e dalla determinazione di donne così diverse tra loro nel mondo in lotta per un cambiamento radicale. Aveva anche una grande curiosità per i rapporti personali, una partecipe complicità per gli amori e un sincero dispiacere per quelle vicende che finivano male, con separazioni dolorose, lacrime e solitudine.
Nel periodo in cui ero esule a Parigi (negli anni ’80), con i miei due figli, lei e Karol ci invitavano spesso a pranzo. Talvolta, quando arrivava all’improvviso dall’Italia, veniva a trovarci a casa nel diciottesimo e ci raccontava le ultime vicende italiane.
Non tollerava lamentazioni: nel 1987, dopo la mia prima assoluzione, felice di una ottenuta libertà di movimento, tentai di passare le vacanze invernali in Polonia, nei Sudeti. Ma arrivata a Varsavia, appena scesa dall’aereo, fui rispedita a Parigi da dove arrivavo, senza nessuna spiegazione, come “persona non grata”. Levai alti lamenti, scrissi persino al presidente della Repubblica, l’unica reazione fu una lettera di un qualche sottosegretario che diceva che per l’Italia io ero una cittadina senza particolari problemi di mobilità e dotata di passaporto. La reazione di Rossana fu: ma cosa ti aspetti, che l’Italia dichiari guerra alla Polonia? Era severa, non ammetteva né giustificava il vittimismo, vittimismo che spesso attribuiva anche a certi settori del femminismo.
Tutti sanno che amava i gatti, soprattutto i gatti neri. Quando decise che fosse ora di avere un gatto a Parigi, che doveva essere nero, mezza Parigi si dedicò a cercare un gattino, con le gattare che non volevano darlo ad una persona anziana. Arrivò Mefistofele, detta Mefis. Rossana era molto fiera di Mefis, che dormiva di notte con lei, e che in Quai des Grands Augustins usciva in giardino a caccia di uccelli. Non ho un bel ricordo di quel giardino, perché qualche anno fa, arrivando dall’Italia con mia figlia, invitate a cena da Rossana, tenendo in mano mezzo kilo di parmigiano, proprio lì sono inciampata e sono caduta di faccia, rompendomi il naso, ma tenendo ben in alto il parmigiano perché non si rompesse. Rossana ogni tanto mi ricordava, ridendo, questa mia balordaggine.
Mi ha preso sotto la sua ala protettrice per il 7 aprile, ma aveva presente i comitati politici di Conegliano-Pordenone, fatti con PO e il Manifesto all’inizio degli anni ’70. Io ero a Pordenone, con PO. Considerava quell’esperienza positiva e mi disse spesso che era un peccato che non fosse continuata. Per le vicende processuali del 7 aprile, assieme a Stefano Rodotà, prese sempre le mie difese. Mi riteneva innocente, e su questo discutemmo molte volte: non ero d’accordo perché volevo sfuggire all’equazione che diceva che processualmente innocenza equivaleva ad estraneità. Era un elemento di contrasto tra di noi, mai risolto.
Ultimamente voleva sapere tutto delle mostre che andavo a vedere, gliele descrivevo minuziosamente, come potevo, avrei voluto essere i suoi occhi. Le limitazioni del corpo non la spaventavano: con mia figlia Sara (e Doriana), poco prima del Covid, stava organizzando una permanenza in un centro termale a Teolo: ci siamo viste il 22 febbraio di quest’anno a Roma per l’ultima volta, parlando proprio in termini concreti di questa eventualità, che non ha potuto realizzarsi. Noi saremmo state felici di poterla avere vicina, di vederla spesso. Il fatto è che le volevo bene, e credo che anche lei me ne volesse: domenica mattina, quando ho saputo della sua morte, ho pianto.
di Alisa Del Re, tratto da EuroNomade