Di questo si tratta, la sentenza che ha colpito Dana è il frutto di un vero e proprio processo alle idee. Ad indicarlo chiaramente sono le motivazioni, non ancora depositate ma trapelate, che la giudice Elena Bonu ha addotto nel rifiuto delle misure alternative al carcere, ma è anche la natura stessa della pena comminata.
Una pena evidentemente spropositata: due anni per aver partecipato ad un’iniziativa durata 10 minuti, in cui la “colpa” di Dana sarebbe stata quella di spiegare ad un megafono i motivi della protesta.
Il movimento No Tav all’epoca dei fatti era in mobilitazione permanente da lunedì 27 febbraio, in seguito alla caduta di Luca dal traliccio. Giorni di rabbia e dolore, ma anche di determinazione, nonostante le cariche e gli scontri che continuavano a susseguirsi.
I No Tav quel giorno avevano deciso di liberare i caselli di una delle autostrade più care d’Italia, la Torino Bardonecchia, che dal lunedì della stessa settimana fino al giovedì era già stata occupata in maniera permanente dal movimento. Il senso di quella iniziativa era, ancora una volta, sottolineare l’enorme sperpero di denaro pubblico destinato alla costruzione dell’opera.
Il reato di Dana non è stato tanto quello di aver partecipato alla liberazione dei caselli, di per sé un reato trascurabile (sono centinaia i casi in cui processi che riguardavano iniziative del genere si sono risolti in pene modeste o addirittura in assoluzioni), ma è evidentemente quello di essere parte con determinazione e protagonismo di una delle lotte popolari più longeve ed efficaci del nostro paese, che ha messo in discussione governi e assetti istituzionali e che è la bestia nera di chi specula e devasta l’ambiente. La sua “responsabilità” è quella di essere stata per anni uno dei volti pubblici, una delle voci con cui il movimento ha parlato, ha gridato le proprie accuse verso un sistema ingiusto che ignora i reali bisogni dei territori.
Una delle motivazioni della sentenza con cui sono state rifiutate le misure alternative è che Dana non si sarebbe allontanata nè dal movimento No Tav nè dal territorio continuando a vivere in valle a Bussoleno. Lei è colpevole dunque di non aver abiurato le sue idee, di non essersi fatta intimidire dalle persecuzioni che quotidianamente colpiscono gli attivisti e le attiviste del movimento e di aver continuato a lottare con generosità, senza risparmiarsi. E’ colpevole di non aver voluto lasciare un territorio dove risiedono i suoi affetti, dove resistono le montagne che ha imparato ad amare e conoscere: un territorio che viene dipinto come un tessuto criminogeno. Gli abitanti della valle che si schierano contro il TAV in questa narrazione vengono considerati alla stregua di banditi invece che cittadini preoccupati per il proprio futuro e quello del territorio, già ferito, in cui vivono. Un processo alle idee che ricorda altri tempi, tempi in cui in giro per la valle venivano affissi cartelli con scritto “achtung banditen”, tempi in cui le donne che si opponevano al potere costituito erano soggette alla “caccia alle streghe”.
Ora come allora i persecutori, i carnefici si travestono da burocrati, nascondono la loro vigliaccheria dietro una presunta oggettività del diritto. Un’oggettività del diritto che condanna sempre i più deboli, condanna chi resiste ed è supina ai ricchi, ai potenti. La politicizzazione del Tribunale di Torino, e in particolare di alcuni magistrati e di alcuni giudici che qui esercitano ormai è cristallina. Un tribunale che, lavorando in piena sintonia con questura e carabinieri, è diventato a tutti gli effetti il braccio armato di Telt per portare avanti un’opera della cui inutilità ormai ne parla apertamente non solo la popolazione della valle ma persino l’analisi costi benefici dello scorso governo e la Corte dei Conti Europea.
In un’epoca come questa, sconvolta dai cambiamenti climatici e dalla pandemia di Coronavirus, ci si aspetterebbe che le ragioni della vita prevalessero sulle ragioni del denaro. Ma se c’è qualcosa che abbiamo imparato in questi trent’anni di resistenza è che solo la determinazione dei popoli, la forza e la dignità di chi si oppone possono mettere un freno all’egoismo, all’arroganza, alla prepotenza di chi amministra e gestisce il potere.
La pandemia in cui stiamo vivendo ha approfondito in noi la consapevolezza che prendersi cura di chi ci sta vicino, dei posti in cui viviamo è la priorità assoluta. In fondo quando diciamo “Si parte e si torna insieme” è questo che intendiamo. Quindi abbiamo deciso di non lasciare sola Dana ad affrontare le prepotenze del potere, ma di farle sentire tutta la nostra solidarietà e vicinanza con un presidio permanente sotto casa sua, in Via Pietro Ravetto 38 a Bussoleno, in maniera che sia grande la vergogna di chi si presenterà per provare a tradurla in carcere.
Invitiamo tutti e tutte a portare solidarietà a Dana e testimoniare la propria indignazione verso questa assurda decisione.
Domani, mercoledì 16, il presidio permanente sarà animato dalle seguenti iniziative: