Divide et impera. Non sono solo l’alcolismo, l’appartenenza ai partiti politici e alle innumerevoli ramificazioni della religione cristiana a frammentare e a dividere famiglie e comunità indigene tzeltales e tojolabales. Nel corso degli anni il fenomeno della migrazione interna è aumentato, a detta degli abitanti di queste comunità della zona di Altamirano, nel Chiapas, e con esso il fenomeno del narcotraffico importato e del consumo di stupefacenti. Cristalli di metanfetamina, cocaina e cannabis vengono consumati e venduti da molti ragazzi e giovani adulti al ritorno nelle loro comunità di appartenenza. Le autorità di alcuni di questi villaggi indigeni sradicano e bruciano ettari di piantagioni di marijuana che vedono spuntare nuovamente, a distanza di mesi, in luoghi nascosti dalla fitta vegetazione. Durante le visite alle famiglie di queste comunità spesso le madri raccontano i cambiamenti inspiegabili che vedono nei loro figli di ritorno dagli Stati di Sonora e Nayarit, nella parte nord e ovest del Messico, o dalle zone turistiche costiere come Cancun e Playa del Carmen.
“Imparano una cultura diversa dalla nostra” rispondono spesso i padri di famiglia quando si domanda il motivo di questi cambiamenti. La stessa risposta mi è stata data da un genitore mentre stavo sorseggiando una tazza di fagioli tostati, un surrogato del caffè. Ho seguito con lo sguardo la figlia che entrava in casa dopo una giornata di scuola e accendeva la televisione. “E’ arrivata due anni fa nella nostra comunità” mi ha detto sua madre. Poi mi ha indicato con la testa la figlia intenta a guardare un telefilm in cui il protagonista narcotrafficante salvava la sua amante dal sequestro del cartello rivale. “A volte non capisco se quello che vedo è reale”, ha continuato il padre in tzeltal.
La figura del mafioso narcotrafficante, presentato come modello da imitare, è stata costruita e veicolata nel corso degli anni dai mezzi di comunicazione di massa e dall’industria musicale. Spesso viene rappresentato come il buono affascinante dei film o delle serie televisive, ovviamente ricco a dismisura e accompagnato da donne a bordo di macchine di lusso. I suoi nemici sono generalmente persone invidiose del potere a sua disposizione, che lottano per poter essere come lui. Questo modello viene rafforzato da prodotti musicali che associano l’immagine del criminale a una figura socialmente desiderabile, seducente nei disvalori che incarna e sessualmente attraente.
“A Nayarit lavoravo in un campo di pomodori assieme a gente di altre comunità” racconta Juan, giovane tzeltal di un piccolo villaggio nei pressi di Altamirano, indicando alcune colline. “Volevo guadagnare qualche soldo, l’anno scorso è nata la mia quinta figlia”. Sorride guardando sua moglie tojolabal intenta ad allattare la piccola Guadalupe. “Ci sono persone di altre comunità che si incaricano di annotare i nomi di chi vuole lavorare in quei campi; lavorano per conto di un’azienda di imballaggio di pomodori che si occupa di esportarli negli Stati Uniti. Una volta arrivati ci hanno assegnato le stanze in cui dormire e riposare e in ognuna di queste c’era un venditore di cristalli (metanfetamina, N.d.A.). Ti aiuterà a non sentire il dolore e la stanchezza”, mi disse il venditore aprendo lo zaino zeppo di cristalli divisi per buste. “Rifiutai; ho visto amici miei spendere tutto ciò che guadagnavano in quella droga, molti hanno perso la testa. Alcuni sono stati aggiunti alla lista dei debitori, non riuscivano a smettere di fumare”. Innumerevoli sono i fattori che inducono i giovani indigeni a intraprendere un cammino verso altri Stati del Messico in cerca di uno stile di vita mostrato, venduto dalle televisioni e purtroppo comprato da quei giovani occhi indigeni, increduli e ammaliati da ciò che vedono.
“Ho dovuto andare a salvare mio fratello” rivela Luis, tojolabal di trentadue anni all’ombra di un albero di mango. “Al termine della stagione di raccolta, i ragazzi della comunità erano tornati senza di lui. Mi dissero che rischiava la vita e che sarei dovuto andare a salvarlo”. Scuote la testa in direzione della casa di famiglia. “C’è una piccola casetta di legno vicino alle stanze in cui dormono i lavoratori, è sempre aperta. Lì si possono comprare i cristalli all’ingrosso, un signore incaricato dal narcotraffico li vende. A Sonora e in altri Stati del nord fabbricano questa droga, per questo costa meno rispetto ad altri Stati. Il signore ti propone di vendere per lui, per ogni venti chili venduti hai diritto a un chilo in regalo. Puoi scegliere se venderlo o fumarlo.” Allarga le mani facendomi intendere la quantità di cristalli. “Mio fratello Jorge cominciò a fumare per resistere alla fatica fino a non poter più pagare. Si indebitò e il signore della casetta gli propose di venderli per saldare il debito. Nel tempo fumò quei venti chili e venne richiamato nella casetta. Gli dissero che avrebbe avuto un’ultima possibilità per ripagare. Gli mostrarono delle armi e una lista di persone da uccidere. Erano i venditori che avevano deciso di scappare, almeno così gli dissero. Una notte due persone lo prelevarono dalla sua stanza. Andarono in una città vicino al luogo di lavoro e gli mostrarono la vittima. Una volta riportato nel campo di pomodori mio fratello chiese aiuto agli altri lavoratori, gente di questa comunità”. Indica con la testa le case di lamiera attorno a noi. “Poco dopo tornarono e mi avvisarono. Andai dove stava lavorando, riuscimmo a scappare assieme. Ora si sta disintossicando a casa. Stiamo soffrendo molto, sua moglie si vuole separare e i figli hanno paura di lui”. Riprende a guardare verso casa sua. “Alcuni comprano i cristalli per portarli con sé tornando a casa, pensano a ripartire appena possibile. La vita nelle nostre comunità sta cambiando in fretta”.
“Un giorno abbiamo trovato un mucchio di marijuana dentro alla borsa termica di un venditore di formaggio. Da mattina a sera il ragazzo passava tra le varie comunità suonando il clacson della sua moto” racconta don Arturo, figura incaricata di vigilare assieme ad altre persone sulla propria comunità infestata dal consumo e dallo spaccio di cannabis e cocaina. “Abbiamo incarcerato il ragazzo e sono andato assieme ai miei compagni dal presidente municipale di Altamirano mostrandogli la droga; era quasi un chilo. Ci ha riso in faccia, dicendo che era per consumo personale e non per la vendita.” Arturo si toglie il cappello da poliziotto. “Abbiamo scoperto che lo stesso presidente permette alle cantine di Altamirano di vendere cocaina. Conosci la sirenita?” chiede aggiustandosi il cappello sulla testa. “E’ un luogo in cui ragazzine di comunità e straniere si prostituiscono. Alcune vengono dall’Honduras. Ebbene, il quel posto vendono alcol e cocaina. Perché il presidente municipale non lo chiude?” si domanda scuotendo la testa. “Abbiamo avuto un incontro con la Giunta del Buon Governo, gli zapatisti di Morelia, nel loro Caracol (uno dei centri di comando N.d.A.). Hanno chiesto la collaborazione delle autorità delle comunità non organizzate per controllare e fermare questi venditori. Alcune delle nostre autorità sono corrotte” afferma toccandosi il cuore. “Pensano solo ai loro interessi e non alla sofferenza della gente. Non abbiamo ancora raggiunto un accordo con l’EZLN (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale N.d.A.)”.
Alcolismo, prostituzione, narcotraffico e tossicodipendenza. Queste sono solo alcune delle numerose conseguenze dei rapidi cambiamenti socio-culturali che le comunità rurali tzeltales e tojolabales sono costrette a subire nell’assordante indifferenza o peggio, complicità, dei politici locali.