Molti furono i nomi dati alla zona torrida scoperta quasi per caso, o meglio, inventata per necessità immanente, da filosofi e navigatori spagnoli e portoghesi che contro Plinio, Aristotele e gli antichi saggi, dovettero arrendersi all’evidenza. Cristoforo Colombo non aveva alcun dubbio, il paraíso terrenal, il paradiso terrestre doveva per forza essere qui. Lo confermava il clima ameno, l’assenza dei rigori invernali, la nudità degli uomini, la loro innocenza. La natura tutta, con la magnificenza e l’esuberanza delle sue forme lodava il creatore. Il nome dato dagli indios alla reyna de la fruta, la regina della frutta era la conferma di che, così come nelle Indie orientali, fino a qui erano giunti gli apostoli, SãoTomé das Indias, proprio lui, Tomé, Tommaso, colui che, con la scusa di abbracciare ancora una volta il suo Signore, finse di non credere alla verità delle sacre ferite. La reyna de la fruta : l’ananas, il cui nome non è altro che la giunzione di due parole Anna Nascitur . E chi, se non la mulher vestida de sol, la donna vestita di sole, la Regina Coeli, nacque senza peccato da Anna e della quale si invoca centocinquanta volte il nome nel Rosario? Ecco la prova della santità di queste terre, il sacro nome dell’Ananas. Il paradiso terrestre è qui, a due passi, nell’orto sotto casa.
Nel 1609, il Governador Geral, decise di fare del Brasile un nuovo Perù. Era là infatti che si trovavano le miniere d’oro e d’argento di Potosí, era là che la promessa di ricchezza senza fine veniva mantenuta. Qui invece nessun metallo prezioso, solo l’immensità della foresta infestata di cannibali. Si decise quindi di importare duecento “pecore da carico di quelle che portano l’argento di Potosí”. Pecore da carico: quella simpatica bestia chiamata Llama. Per essere come il Perù, per trovare oro e argento, si deve cominciare dai poveri Llama. E così facciamo fino ad oggi. Importiamo Llama elettronici sotto forma di smartphone e cravatte Hermès, per sentirci anche noi nel nuovo Perù tecnologico del lusso che non avrà mai fine.
Invece il futuro è arrivato, costruito in anni e anni, dall’inarticolata, feroce massa dei dannati della Terra agli ordini di chi grida di più. Il sottosuolo ha spalancato i suoi tombini dai quali è uscito l’istinto trasformato in azione, in volontà di sangue e definitiva vendetta. E Freud è chiarissimo: la vendetta più atroce è sempre quella contro se stessi.
Il vero Lumpenproletariat, a cui negli ultimi anni è stato insegnato il valore del consumo, il valore dei Llama, dell’effimero apparire nichilista del possedere istantaneo, oggi ha imparato la lezione ed esige che il suo spazio venga riconosciuto. Nato dalla violenza della miseria, trasforma la violenza dei fatti in questa “nuova normalità”, naturalizza la morte diaria benedicendo il suo boia.
Il paradiso terrestre si è disfatto, si è liquefatto, si è volatilizzato per sempre, soffocato da una realtà irreale, dalla potenza della sopraffazione morale e materiale contro coloro che non hanno più nessuna difesa e finiscono per accettare come ineluttabile tutto ciò che succede, rinchiudendosi in un guscio di paura e rassegnazione. La gente… la gente, dentro, dentro agli autobus strapieni, dentro ai bar, ai centri commerciali, dentro gli uffici, dentro se stessa, annichilita dalla macchina del consenso che esige misure drastiche. La gente… Mentre il paese è devastato dalla pandemia, il governo continua a vendere il patrimonio pubblico a consorzi finanziari internazionali: tre piattaforme di estrazione petrolifera, con tutto dentro, al prezzo di un milione e mezzo di dollari. Per fare un paragone: al prezzo di due appartamenti vista mare, il governo ha venduto tre piattaforme: con tutto dentro, personale specializzato, expertise, tecnologia, e petrolio incluso.
Tre navi del ducato di Bretagna, due delle quali di cento e quaranta tonnellate, e l’altra di ottanta tonnellate più o meno, furono inviate alle terre del Brasile per riscuotere legni e altre mercanzie di grande utilità ai nostri regni, terre, signorie e sudditi, e queste navi che hanno ancorato in un certo porto e rifugio di quella terra, posero e sventolarono le bandiere e i suggelli di Francia e del ducato di Bretagna, che fosse caricata grande quantità di legni del Brasile, grande numero di animali strani e uccelli… (Cristovão Jacques, navigatore. Carta ai Re, Secondo Viaggio al Brasile, 1527).
Se è vero che governare è creare cadaveri e macerie, ci sono indubbiamente riusciti. Adesso però è il momento di fermarsi, e pensare alla ricostruzione. Faccio mie le parole di Edith, Moniz – instancabile animatrice di strada, per anni punto di riferimento sicuro dei “meninos de rua” di São Paulo – forgiata nella speranza concreta sorta dalla sofferenza, dice:
E che le navi all’orizzonte partano e tornino infinite volte, che continuino a rubare tutto. Della nostra terra non rimane più nulla, solamente il vento a soffiare tra l’abbandono e la miseria delle baracche. Potete andare, portatevi via per sempre il nostro oro. Non ne abbiamo bisogno, non ne vogliamo. Secoli di vene aperte ci hanno immunizzato: non più “legni, animali strani, uccelli”, adesso rimaniamo noi. Solamente noi.
Giorni rilucenti di plastica, giorni di ronzii e voci sovrapposte. Giorni di solitudine, sofferenza e morte. Solitudine infiltrata tra i milioni di passanti delle metropoli, nei colori infami della felicità imposta. La speranza di un popolo affogata nei dollari della corruzione, tradita nelle promesse di governanti sottomessi a interessi decisi altrove, la speranza di un popolo continua a sopravvivere nella semplicità di un gioco silenzioso, nel sorriso di una vecchia donna, nelle rughe di una vita costruita nel tempo senza tempo degli enormi spazi ancora da riempire del cuore degli uomini. Per questo l’immagine muta del silenzio della mia gente è più eloquente di qualunque parola sempre assassinata sul nascere. La voce del mio popolo è il suo silenzio, la voce del mio popolo è letta nelle viscere della polvere che attraversa le sue case, nei giochi primordiali di bambini che fin dalla nascita sanno già tutto. La voce scalza della mia gente attraversa la miseria che le hanno costruito addosso e veste il suo miglior vestito per, finalmente, riconoscersi e rincontrarsi con se stessa. La voce degli sguardi, la voce che niente ha da aggiungere a ciò che è già stato detto dalla sua semplice presenza. La mia gente parla la lingua del mondo, senza chiedere niente a nessuno, adesso dice: io esisto, io sono.