Winston Churchill affermava che “la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle che sono state di volta in volta sperimentate.” [ 1 ]. Questa frase è largamente condivisa, sebbene il concetto di democrazia sia sufficientemente vago da poter essere declinato in molti modi. Non mi soffermerò qui sulla critica fondamentale che le democrazie moderne di tipo rappresentativo (o indiretto), come quella italiana, abbiano di fatto lo status di “oligarchie”. Infatti, sebbene eletti attraverso un processo di voto (e in epoca recente si è giunti nella maggioranza dei paesi ad adottare il suffragio universale), i rappresentanti del popolo non hanno alcun vincolo circa le linee ideologiche a cui si atterranno e circa le conseguenti scelte politiche durante il mandato ricevuto (tanto che possono cambiare schieramento durante la legislatura senza rendere conto ai proprio elettori!). Ciò che vorrei invece qui esprimere è il concetto, certamente banale ma troppo spesso trascurato, che una democrazia è tanto più reale quante più sono le voci che è in grado di rappresentare. Personalmente credo che sia possibile per una società autodeterminarsi e autogovernarsi in modo collettivo, ma inevitabilmente la realtà ci tiene ancorati ad argomentazioni di tipo pragmatico sul fatto che esiste un limite intrinseco alla quantità di voci che possono entrare in un dibattito e che gli oltre 60 milioni di italiani non potrebbero ciascuno esprimere la propria opinione sempre e su tutto. Accettiamo come ipotesi di lavoro tale argomentazione, ma essa non può essere spinta oltre un certo limite: se la linea pragmatica dell’economia di lavoro e dell’efficienza decisionale prevalesse, dovremmo essere tutti d’accordo che un regime totalitario sarebbe la migliore forma di governo possibile. Ci si trova dunque di fronte ad un dilemma: come conciliare la possibilità di dare voce a tutti (argomento ideologico) con quella di prendere provvedimenti concreti per una società (argomento pragmatico)?
Così nasce il compromesso della democrazia rappresentativa, già descritto (con accezione negativa) nel IV secolo a.C. da Aristotele [ 2 ]. Ma il problema quantitativo rimane aperto: quale è il giusto numero di rappresentanti per far valere la voce dei cittadini? Ovviamente non esiste una risposta universale, poiché i fattori rilevanti sono innumerevoli (ad esempio, il livello medio di istruzione, la portata della rete di informazione, la distribuzione delle forze politiche ecc.). Tuttavia non sono mancati tentativi di ideare modelli teorici atti ad individuare il numero ottimale di rappresentanti, come quello dello scienziato politico estone Rein Taagepera, che vorrebbe il numero di rappresentanti parlamentari proporzionale alla radice cubica del numero di cittadini alfabetizzati [ 3 ]. Tuttavia tali modelli risultano spesso troppo semplicistici falliscono al confronto con la realtà di molti paesi. In ogni caso, il principio dovrebbe essere quella di avere la massima rappresentanza possibile compatibile con la possibilità di gestirla a livello pratico.
Il 20 e 21 settembre 2020, i cittadini italiani saranno chiamati ad esprimersi , tramite un referendum confermativo, circa la modifica di tre articoli (56, 57 e 59) della costituzione “in materia di riduzione del numero dei parlamentari ” [ 4 ]. Votando NO, potremmo ancora respingere l’entrata in vigore del testo di legge, già approvato in via definitiva alla Camera lo scorso 8 ottobre, che prevede la riduzione del 36,5% dei rappresentanti in ciascuna delle due rami del Parlamento; dai 630 deputati attuali si passerà a 400 e da 315 a 200 senatori. Pertanto, il rapporto tra cittadini e rappresentati parlamentari passerebbe quindi da 96.006 a 151.210 cittadini per ogni deputato e dagli attuali 188.424 a 302.420 per ogni senatore [ 5 ] . Se i numeri erano già scoraggianti per chiamare questo sistema una vera democrazia, il taglio previsto ci porterebbe ancora più lontano (del 36,5%) rispetto ad una equa rappresentanza delle voci dei cittadini.
Quello che sconvolge non è la miopia con cui una tale riforma –chiaramente pensata come una campagna “anti-casta”, da sempre cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle, volta ad attirare facile consensi nel trend populista– è stata elaborata, bensì il fatto che le maggiori forze politiche si siano tutte espresse a favore. Oltre al M5S, sostengono il sì anche l’alleato di governo PD (che ora inizia a titubare [ 6 ], ma non si decide a dare una chiara indicazione di voto) e ovviamente le destre all’opposizione, Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia. Con becera demagogia e uno spirito punitivo verso “la casta”, la riforma è stata presentata come un taglio di presunti sprechi e quindi come promessa di un risparmio per i contribuenti, un’argomentazione questa che ha sempre una forte presa sulle masse. Inoltre, viene propugnata una narrazione secondo la quale l’instabilità e la frammentazione politica, che caratterizza la storia del nostro Paese, sarebbero da attribuirsi a un eccessivo numero di parlamentari che rendono il processo legislativo lento e inefficiente. Ma eccessivo rispetto a cosa?! I sostenitori della riforma sono arrivati addirittura a diffondere notizie false sul fatto che l’Italia avrebbe un numero di parlamentari pro capite molto maggiore rispetto alle altre democrazie! Prima di entrare nel dettaglio di queste opinabili argomentazioni, vorrei richiamare l’attenzione sul fatto che 183 tra docenti e ricercatori di diritto costituzionale, nonché moltissimi altri esperti, stanno mettendo in guardia circa i pericoli della riforma e hanno appena firmato un documento (disponibile integralmente al link [ 7 ]) in cui spiegano, in maniera chiara e concisa, perché voteranno NO. In particolare, essi affermano che “la riforma svilisce, innanzitutto, il ruolo del Parlamento e ne riduce la rappresentatività, senza offrire vantaggi apprezzabili né sul piano dell’efficienza delle istituzioni democratiche né su quello del risparmio della spesa pubblica”.
Iniziamo quindi dalla più ridicola, sia ideologicamente che pragmaticamente, delle motivazione addotte, ossia quella economica. I già citati costituzionalisti scrivono che quello economico è un argomento “inaccettabile non soltanto per l’entità irrisoria dei tagli di cui si parla, ma anche perché gli strumenti democratici basilari (come appunto l’istituzione parlamentare) non possono essere sacrificati o depotenziati in base a mere esigenze di risparmio” [ 7 ]. In ogni caso, l’assurdità di questa trovata può essere illustrata solo attraverso un’inquietante parabola: ridurre arbitrariamente di un terzo il numero dei parlamentari, lasciando invariato tutto l’assetto costituzionale, semplicemente perché “ci costano troppo” è come se, per far quadrare i conti, una famiglia con molti figli decidesse, anziché di ridurre le spese per vestiti firmati e videogiochi, di eliminare fisicamente un figlio ogni tre. Ma se il lettore non fosse ancora convinto che tale argomentazione è illogica, forse sarà interessato a sapere che essa è non soltanto irrilevante ma anche mendace. All’indomani dell’approvazione parlamentare del taglio, infatti, gli esponenti del M5S hanno iniziato a diffondere lo slogan “un miliardo per i cittadini”. Tuttavia, anche nella più approssimativa e gonfiata stima, il taglio non farebbe risparmiare più di 100 milioni di euro all’anno, quindi un miliardo corrisponderebbe al risparmio complessivo di 10 anni. Carlo Cottarelli, direttore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani, va oltre, affermando che il risparmio effettivo ammonterebbere a soli 57 milioni all’anno, vale a dire allo 0,007% della spesa pubblica italiana [ 8 ]. Per ciascun cittadino, questo equivarrebbe a un risparmio annuo di 95 centesimi di euro, meno del prezzo di un caffè! [ 9 ].
Per quanto riguarda invece la motivazione punitiva nei confronti della “casta”, rimando alla lucidissima analisi di Nadia Urbinati, ordinario di Teoria Politica alla Columbia University, la quale afferma che “si tratta di una riforma in tutto scellerata. E la radice di questa scelleratezza sta nella sua gestazione: è figlia di una logica aberrante, quella che crede (che vuol far credere) che rimpicciolendo il numero dei rappresentanti si rimpicciolisca la casta. Ma sarebbe vero proprio il contrario: si formerebbe una casta più potente perché più selezionata numericamente, e soprattutto naturalmente direzionata verso le parti più forti della società e dell’elettorato. […] Se davvero vogliamo contenere il potere degli eletti, non c’è miglior strategia che volere che il loro numero non sia così piccolo. ” [ 10 ]. Si noti anche che dal 1919 ad oggi il numero di parlamentari è sempre andato giustamente crescendo, ma solo per un totale del 17% a fronte di un aumento della popolazione di circa il 33%, quindi la rappresentatività pro capite era già andata via via diminuendo. Uniche eccezioni al trend di crescita le due legislature elette sotto il regime fascista in cui i deputati furono ridotti a 400, curiosamente lo stesso numero proposto dalla riforma attuale [ 11 ].
Veniamo ora alla argomentazione secondo la quale il numero dei nostri parlamentari sarebbe esageratamente alto. L’unico modo di dichiararlo tale sembrerebbe essere quello di compararlo con i sistemi legislativi di altri paesi. A tale proposito, un recente dossier del Centro Studi del Senato [ 5 ] riporta, fra le altre cose, un’analisi comparata sulla rappresentanza parlamentare all’interno degli stati membri dell’Unione Europea. Per quanto riguarda le camere “basse” (la nostra Camera dei Deputati ed i suoi corrispettivi) ammonta oggi, in media, a 3,9 deputati ogni 100.000 abitanti. Per i grandi stati quali Francia e Germania, è vero che questo numero scende a 0,9, che è però in linea con quello italiano attuale di 1,0. Con il taglio proposto, l’Italia scenderebbe a soli 0,7 deputati ogni 100.000 abitanti, divenendo così lo stato europeo con la più bassa rappresentanza parlamentare in assoluto [ 5 ]. Al di là della generale motivazione ideologica, già ampiamente esposta, una così bassa rappresentanza avrebbe serie conseguenze sulla concreta gestione politica del paese. Il costituzionalista della Sapienza Massimo Luciani ha spiegato senza mezzi termini che “con il sì al taglio dei parlamentari, le Camere non funzioneranno” [ 12 ]. In particolare, al Senato, ove i seggi sono attribuiti su base regionale, il numero minimo di senatori garantiti alle regioni più piccole (eccezion fatta per Val d’Aosta e Molise, nei quali rimarrebbe invariato) scenderebbe da sette a tre. Questo comporterebbe che solo i due o tre partiti più votati sarebbero rappresentati in Senato [ 13 ]. Quindi la mancanza di un numero sufficiente di seggi in Senato imporrebbe uno sbarramento effettivo molto più alto dell’attuale 5%, che escluderebbe sistematicamente le minoranze (per esempio, per la Liguria, che vedrebbe assegnati solo 5 senatori e per la Basilicata, che ne avrebbe 3, le soglie effettive per entrare in Senato sarebbero rispettivamente il 12,5% e il 20% [ 11 ]). Inoltre, dietro alla pallida promessa di un più snello e robusto sistema legislativo, il taglio dei parlamentari rischia di fatto di sortire l’effetto opposto, come affermato dal giurista Carlo Melzi d’Eril e dal docente di Diritto Costituzionale all’Università di Milano-Bicocca, Giulio Enea Vigevani, secondi i quali “si rischierebbe il reclutamento di una classe politica più fedele al ‘capo’ e meno legata al territorio e si sottrarrebbe ulteriormente al corpo elettorale la possibilità di contribuire, con il proprio voto per una singola specifica persona, alla formazione di una maggioranza capace di governare stabilmente.” [ 13 ].
Ultimo, ma cruciale, rimane il punto della legge elettorale. Il sistema politico è un po’ come un gioco da tavola con le sue regole arbitrarie ma coerenti. Come su una schacchiera, se la Costituzione sancisce il numero e la composizione dei pezzi, la legge elettorale ne norma i movimenti. Ma come stabilire quanti pedoni devono stare sulla scacchiera senza sapere in che modo essi possono muoversi? Molti politici, tra cui diversi esponenti del PD, hanno infatti sostenuto il taglio dei parlamentari a condizione che la legge elettorale torni ad essere proporzionale. Sebbene questo aiuterebbe, in linea di principio, ad accrescere sia pure di poco la rappresentanza, rimarrebbe comunque lo sbarramento effettivo dato dall’esiguo numero di seggi (vedi sopra). In sostanza, la proporzionalità va a scontrarsi col fatto che i rappresentanti sono “quantizzati” (ovvero non si possono mandare in parlamento ¾ di rappresentante) e quindi l’unico modo per garantire una rappresentanza realmente proporzionale sarebbe quello di avere un numero di parlamentari sufficientemente elevato. Comunque sia, mentre la riforma costituzionale è già stata approvata dal Parlamento e deve solo essere confermata dai cittadini col referendum, di proposta di legge elettorale si vocifera soltanto. E non solo è una vaga promessa, ma se anche questa dovesse essere mantenuta, non vi è nessuna garanzia che una eventuale riforma elettorale venga effettivamente concepita per compensare la riduzione di rappresentatività che la vittoria del referendum porterebbe. Ma anche se la legge ci fosse già, ed ammesso che questa fosse stata ideata su misura per ristabilire parte della rappresentatività, il problema vero è che la legge elettorale non è parte della costituzione e può essere facilmente modificata (in linea di principio anche più volte in una legislatura). Al contrario, per loro natura, i dettami costituzionali, che appunto sanciscono il numero di rappresentanti, dovrebbero essere principi fondamentali semi-permanenti. Negli ultimi 30 anni, ad esempio, si sono susseguite ben quattro diverse leggi elettorali. In altre parole, le leggi elettorali “volant”, le riforme costituzionali “manent”.
P urtroppo, trattandosi di un referendum confermativo non è necessario il raggiungimento di un quorum, ovvero il risultato della votazione sarà valido indipendentemente dall’affluenza alle urne, e le previsioni ad oggi sono tutt’altro che rosee. Tuttavia, di giorno in giorno, sempre più persone, inclusi molti politici pentiti che disertano la linea di partito [ 14 ], sembrano rendersi conto del pericolo a cui stiamo andando incontro. Forze politiche che antepongono ad una solida base ideologica la ricerca del consenso a qualunque costo, dando sfogo a bieche chiacchiere da bar e al becero qualunquismo, stanno spacciando il risparmio di un caffè per un cambiamento di sistema. Ma c’è ancora tempo per difendere la democrazia da un ulteriore passo verso l’accentramento del potere in sempre meno mani: basterà semplicemente votare NO!
[2] Aristotele, Politica, libri IV-VI.
[3] Taagepera, R., 1972. The size of national assemblies. Social science research , 1(4), pp.385-401
[4] https://dait.interno.gov.it/elezioni/speciale-referendum
[5] http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01114482.pdf
[9] https://www.ilpost.it/2020/08/22/referendum-taglio-numero-parlamentari/
[11] https://ilmanifesto.it/tra-un-mese-il-referendum-sul-taglio-del-parlamento-10-motivi-per-votare-no/