Dopo le terribili esplosioni del 4 agosto al porto di Beirut, i circa 150 morti, 5.000 feriti e 300.000 case distrutte; dopo e durante il dolore e la disperazione dei sopravvissuti; dopo che molti paesi, tra cui l’Italia, e varie espressioni della società civile internazionale si sono mobilitati per fornire sostegno umanitario; dopo le promesse di aiuti “a condizione” offerti con prosopopea pseudo napoleonica dal presidente Macron; dopo le vergognose manifestazioni di gioia da parte di alcuni politici ebrei-israeliani dediti all’odio perfino nella festività ebraica dedicata all’amore (Tu B‘av) come l’ex-deputato Feiglin che ha dato il meglio di sé nel ringraziare Dio per il meraviglioso regalo, cioè la strage di libanesi; dopo aver seguito e valutato le diverse opinioni e convinzioni sulle cause e le responsabilità del disastro, dopo aver attentamente osservato i diversi video delle esplosioni, da alcuni dei quali sembrerebbe che non un errore umano, bensì due missili, abbiano innescato il disastro; dopo aver riflettuto sulle minacce pubblicamente espresse in precedenza da Netanyahu e l’indicazione esatta del luogo che secondo i suoi calcoli conteneva le armi di Hesbollah; dopo le accuse rivolte da qualcuno a Israele e da altri al governo libanese per incuria e negligenza nello stoccaggio di materiale esplosivo anche se destinato all’agricoltura; dopo le accuse a Hesbollah che avrebbe nascosto le sue armi nei magazzini esplosi; dopo tutto questo e durante le manifestazioni antigovernative, in parte spontanee e in parte non si sa, che stanno squassando ulteriormente Beirut (ad oggi oltre 730 feriti e un poliziotto ucciso) e che chiedevano prima le dimissioni e poi la forca per i rappresentanti di un governo ritenuto colpevole dell’attuale disastro oltre che della crisi economica che lo ha preceduto, riteniamo opportuno tenere in sospeso le nostre valutazioni politiche – tanto più che le manifestazioni antigovernative sono trasversali alle varie fazioni, compreso il partito comunista libanese, e molto gradite a Israele e agli Usa – ed ascoltare la voce di qualche persona direttamente colpita dalla tragedia sebbene fisicamente distante.
L’occasione ce la fornisce una giovane architetta libanese che vive e lavora a Londra. Farle una vera intervista è quasi impossibile perché la ragazza scoppia in lacrime appena inizia a parlare. La zona devastata è quella dove lei è cresciuta e dove la scorsa settimana, poco prima della tragedia, stava tornando per abbracciare i suoi parenti e i suoi amici che non vedeva da un po’. Ha rinviato la partenza per andare a un matrimonio e forse è stata la sua salvezza.
La ragazza chiede di usare un nome di fantasia scelto da lei stessa, quindi la chiameremo Muna. Ha 32 anni e appartiene a una confessione cristiana; la sua famiglia infatti è cattolica sebbene non praticante. In Libano i gruppi religiosi sono numerosi e non si dividono solo tra musulmani sciiti e sunniti o cristiani cattolici e ortodossi, no, sono ben 12 le confessioni musulmane e 6 quelle cristiane e l’equilibrio tra i vari gruppi è dato dalla divisione delle cariche istituzionali tra le diverse confessioni religiose. Vanno male gli atei, ironizzava alcuni anni fa un esponente del partito comunista libanese incontrato a Beirut!
Muna appartiene o forse, dopo il disastro, è più corretto dire apparteneva, a una famiglia benestante di Beirut. Ne è prova la foto della casa meno distrutta tra quelle che mi mostra, in cui è visibile qualche parete ancora in piedi ricca di quadri e icone in mezzo a macerie e mobili rovesciati che fanno pensare agli effetti di un terremoto catastrofico. I suoi amici e le sue amiche che la stavano aspettando per raccontarle dal vivo la situazione insostenibile dovuta alla crisi economica e finanziaria e le conseguenze della rivolta del 17 ottobre contro il governo ora sono tutti senza casa e alcuni di loro non ci sono più. Li hanno portati via le esplosioni, mi dice piangendo.
Lascio che la ragazza si calmi e le chiedo se ha avuto perdite anche nella sua famiglia. Direttamente no, nessuno è morto sotto le esplosioni, ma hanno perso tutto. Poi sua nonna ha avuto un infarto due giorni dopo ed ora non c’è più. Piange ancora Muna. Io non chiedo altro, sarà lei a dire che non sa se il terrore di credersi nuovamente sotto bombardamenti, o il dolore di aver perso alcune persone care, o l’angoscia di un futuro senza più risorse per vivere le abbiano fatto scoppiare il cuore, o se la sua morte sia indipendente dalle esplosioni, ma per lei è un motivo di sofferenza che non può separare dagli altri. Vuole riabbracciare chi è sopravvissuto e piangere insieme sulle persone scomparse. Anche per questo vuole tornare a Beirut e lo farà nei prossimi giorni.
Chiedo a Muna se se la sente di rispondere ancora a qualche domanda e al suo cenno di assenso le chiedo se a suo avviso la rivolta di ottobre e le manifestazioni attuali non abbiano avuto qualche infiltrazione tendente a destabilizzare il paese e indebolire il partito sciita Hesbollah. La ragazza non risponde direttamente a questa domanda, ma torna sul disastro attuale e dice soltanto che lei, i suoi familiari e tutti gli amici con i quali è riuscita a parlare sono sicuri che l’artefice di questo spaventoso evento sia Israele.
Non ha neanche una sola espressione di simpatia verso Hesbollah, quindi la sua convinzione non è di copertura di eventuali responsabilità del partito di Nasrallah. Mi chiede di guardare il video che fornirebbe la prova di quanto afferma, ma ne ho già visti tanti e so che un video può essere anche manipolato e può portare fuori pista in un senso e nell’altro. Le chiedo ancora se esclude una qualche responsabilità di Hesbollah nel cosiddetto incidente, sperando in una sua risposta non evasiva e lei chiarisce che detesta gli Hesbollah per la loro chiusura religiosa, che li considera un elemento negativo nella vita sociale libanese, ma che mai avrebbero distrutto la propria terra. Poi aggiunge che comunque gli Hesbollah sono il nemico giurato di Israele e per Israele far cadere su di loro la colpa del disastro sarebbe una conquista politica così come lo è vedere il Libano in ginocchio per la fame.
Però – le ricordo – Israele ha declinato ogni responsabilità sulle esplosioni ed è stato tra i primi a offrire aiuti dopo il disastro. Aiuti che il governo, su pressione di Nasrallah, ha rifiutato. Come giudica questo fatto? Muna risponde che avrebbe fatto lo stesso perché l’obiettivo di Israele è mortificare il popolo libanese e affievolirne la dignità, quindi distruggere il Libano dopo aver indebolito o addirittura annientato Hesbollah, che al momento è il suo più agguerrito oppositore, non è una scelta per garantire libertà civili ai libanesi, ma per destabilizzare ulteriormente il paese. Poi aggiunge che “deve essere il popolo libanese a risolvere i suoi problemi interni e non una forza esterna che fin troppo facilmente può sfruttare il giusto malcontento della popolazione.”
Le faccio altre due domande e poi la libero della mia presenza perché la sua sofferenza va rispettata e mi sembra di averle già fatto troppa violenza approfittando di una relazione amichevole. Le chiedo se pensa che la conferenza dei donatori riuscirà a porre condizioni (come inizialmente aveva dichiarato Macron) che nei fatti rappresenterebbero la realizzazione del desiderio di Usa e Israele di “addomesticare” il Libano secondo le proprie volontà. La sua risposta è incerta. Mi dice che il malcontento è enorme e secondo lei è dovuto più alla crisi economica che non a ragioni prettamente politiche. Aggiunge che “indirettamente i libanesi subiscono gli effetti delle sanzioni imposte all’Iran da Usa e Israele a causa del legame tra Hesbollah e Iran e che questo può essere agevolmente usato per dirigere il malcontento popolare.”
Sapendo che Muna viene da una famiglia cristiana, come il presidente Michel Aoun, le chiedo cosa pensa di lui e la risposta mi gela. Muna risponde seccamente “a war criminal”, un criminale di guerra. In effetti Aoun molti anni fa, quando Muna non era ancora nata, fu uno dei principali artefici dell’assedio del campo profughi palestinese di Tell el zaatar che si concluse con migliaia di morti.
L’ultima domanda che le faccio è se lei, stando a Beirut, avrebbe partecipato alle manifestazioni di questi giorni contro il governo e contro Hesbollah ritenuti colpevoli diretti o indiretti della catastrofe. Muna risponde che si sarebbe trovata molto a disagio nel non partecipare perché lei non apprezza il governo, ma si sarebbe trovata ancor più a disagio nel partecipare perché avrebbe sentito la sua partecipazione strumentalizzata da chi sostiene il malcontento e lo foraggia per indebolire la sovranità libanese. Inoltre, nella situazione specifica, lei mantiene la sua convinzione che dietro le esplosioni ci sia la zampa sionista.
In conclusione sembra che il Libano, visto con gli occhi di una giovane fino a pochi giorni fa favorita dalla sorte, ma non indifferente ai problemi del suo paese e del suo popolo, sia uno Stato alla deriva e molti sono i soggetti interessati a dirigerne il futuro, a prescindere dal decantato diritto all’auto-determinazione. Purtroppo nessuna osservazione oggettiva dei fatti può discostarsi da questa conclusione, quale che sia la verità sulle esplosioni del 4 agosto.