Questo articolo prende le mosse dal reportage da Lampedusa pubblicato qualche giorno fa.
Lampedusa. 11 agosto 2020, la canonica gita in barca.
Partiamo accompagnati da M., conosciuto chiacchierando in via Roma. M. passa l’inverno nel Bergamasco, svolgendo lavori saltuari, e d’estate torna nell’isola dove è nato e dove ancora abitano la madre e i fratelli. Alcuni di loro fanno i pescatori, lui invece accompagna i turisti con la sua barca, attività a cui si sono convertiti molti ex pescatori lampedusani. Un tipo strano, forse un po’ fanfarone, che racconta di essersi trovato più volte a soccorre barchini in mare, e per questo di essere inviso ad alcuni isolani, che ne 2019 sarebbero addirittura arrivati a danneggiare il motore e il tettuccio della sua imbarcazione per ripicca. Questo non gli impedisce di nutrire una certa simpatia per Salvini, è stato contento di vederlo in visita a Lampedusa il mese scorso. “Lui vuole fermare questo fenomeno, ascolta quello che chiede la gente” afferma.
Le sue parole fanno eco alle testimonianze di pescatori raccolte nel 2018 dall’antropologo Marco Aime in L’isola del non arrivo.Voci da Lampedusa: “A terra se vuoi essere razzista, fallo, ma a mare no. A terra, asciutti è tutta un’altra cosa. Vorrei vedere un Salvini a mare cosa farebbe, come si comporterebbe. Qui ci sono i barconi e la terra non si vede, cosa fai?”. Commenta Aime: “I racconti dei pescatori finiscono per confondersi, le loro parole per intrecciarsi, e anche se a volte assumono toni diversi è come se ci fosse una sola voce, due soli occhi che guardano lo stesso, unico, solo mare. Un mare dove si è tutti uguali, si ha tutti paura. Perché chi viaggia in mare sa che non ci sono linee nell’acqua, che ogni onda porta con sé un confine da dissolvere, che nessun limite merita più rispetto della vita umana.”
E così, insieme ad M., partiamo, accompagnati da Bello, tozzo cagnolino ciecamente devoto al padrone e sprezzante di ogni pericolo, che non esita a gettarsi in mare per poi annaspare disperatamente ogni qual volta M. si allontana dall’imbarcazione.
L’acqua è cristallina. Fa caldo, ma in barca tira vento. Bello si è placato e sonnecchia a poppa. L’isola è bellissima.
Superiamo le cale più frequentate e arriviamo nella costa occidentale dell’isola, brulla e quasi desertica, dove non ci sono più spiagge o attracchi, solo scogliere erose e faraglioni , abitati da scarsa macchia mediterranea. All’una batte un sole da svenimento.
C’è qualcuno che si arrampica sulla scogliera. Come ci sono arrivati lassù? E dove contano di arrivare? Per raggiungere la strada che taglia in due l’isola arrampicandosi sulle rocce ci vuole almeno un’ora e mezza, forse anche due. La spiegazione ci arriva dal basso: attraccata a uno scoglio c’è una barchetta lunga circa due metri, simile a quelle si vedono al cimitero delle barche.
Un’imbarcazione al cimitero delle barche di Capo Ponente. La barchetta che incontriamo è grande circa la metà.
M. senza esitare punta dritto alla barchetta abbandonata. Mentre ci avviciniamo, alcuni ragazzi della carovana che si erano spinti meno lontano sulle rocce tornano indietro correndo e sbracciandosi. Non c’è nessuno che parli bene inglese o francese, ma comunque riusciamo a capirci. La situazione è chiara: la barca è rotta, non hanno più benzina, ma sono riusciti a fare un attracco di fortuna. Non ci sono feriti, ma il gruppo sembra molto provato dal viaggio in mare. Sono in 23 (in un’imbarcazione che sarebbe stata sovraffollata con 7 o 8 persone), vengono dalla Tunisia. Ci sono tre ragazze e alcuni ragazzini sui 14-15 anni. Malvestiti, piuttosto malmessi e per la maggioranza privi anche di uno zainetto con pochi effetti personali. S icuramente arrampicarsi sulla scogliera sotto il solleone avrebbe potuto essere un colpo per alcuni di loro. Il peggio però è passato: sono già in Italia, a Lampedusa.
Cosa possiamo fare? Non molto. M., nonostante si fosse presentato come un grande esperto di salvataggi, sembra disorientato e turbato. Tocca a noi chiamare il 112 e cercare di allertare la Guardia Costiera, ma non è facile, non c’è campo e veniamo rimbalzati da un ufficio all’altro. Lanciamo le nostre bottiglie d’acqua e urliamo di non arrampicarsi sulle rocce, che può essere pericoloso.
Nel frattempo passano le barche dei turisti. Nessuno si ferma. Alcuni però si incuriosiscono. Fanno foto, alcuni gridano insulti, “Lasciateli morire!”, “É colpa vostra!“.
Il gruppetto, ora riunitosi sugli scogli vicino al mare, è confuso. Cerchiamo di fargli capire che la polizia arriverà a breve. Ci ringraziano, ci chiedono di non lasciarli lì. Un ragazzino con gli occhiali a metà immerso nell’acqua fuma nervosamente una sigaretta. Una ragazza pallidissima, il velo sfatto e lo sguardo sfinito, ci sorride.
Dopo un po’ più di mezz’ora, la Guardia Costiera arriva e ci intima di allontanarci. Ce ne andiamo e salutiamo i ragazzi. In serata i nostri amici interpreti che lavorano all’hotspot ci diranno che dei 23, 21 sono stati recuperati dalla Guardia Costiera, mentre un paio di ragazzi sono arrivati autonomamente all’hotspot verso sera camminando per tutto il pomeriggio. Stanno tutti bene.