Agli amici, a chi legge. Parentesi. E adesso non venitemi a dire che il fascismo si combatte con la forza della legge, della costituzione, del parlamento, della democrazia rappresentativa, col dialogo. O fate finta di crederci, o proprio non ci credete più neanche voi, quando, giunti al massimo dell’indignazione, rispondete alle folate autoritarie con una bella sottoscrizione, una raccolta di firmette, un comunicato. Non azzardatevi a dirmelo, oggi mordo. Col fascismo non si discute, coi fascisti non ci si conversa: non esistono valori condivisi sui quali basare un ipotetico dialogo per cercare di appianare le differenze sia ideologiche che di comportamento, le incompatibili visioni della vita, del mondo, dei rapporti sociali e interpersonali. Col fascismo, coi fascisti non si discute. E smettiamola una buona volta di denominarli in altro modo, con altre definizioni più appetibili al convivio democratico: sovranisti, populisti, liberal-conservatori, … Fascisti è il loro nome. Diversi dai loro padri e i loro nonni, certamente sì, perché abilissimi a trasformarsi ed adattarsi ai cambiamenti e alle nuove esigenze di questo mondo liquido. Altri nomi, altre facce, stesso ghigno e stessa bava. Basta ascoltarli per cinque minuti e scopriamo che si agglutinano intorno alla voglia di abbattere un nemico potentissimo pronto a togliere loro l’identità nazionale, le tradizioni, il presepio, la caciotta. Scopriamo la loro immonda ignoranza utilizzata per manipolare gli eventi ed accattivarsi le simpatie del popolaccio, sempre impaurito, timoroso e assetato di vendetta, privato di una identità che, paradossalmente, non ha mai posseduto, proprio perché composto dal più becero substrato bottegaio e piccolo borghese che fa dell’individualismo e della meritocrazia la ragione di ogni esistenza, il mito del lavoro, del “mi sono fatto da solo”: guai a chi me lo tocca. No, non siamo sulla stessa barca, perché per loro, barche e barconi sono un bersaglio da affondare. Chiusa la parentesi.
Si immagini adesso che il figlio del presidente dia disposizioni al ministro della giustizia (che esercita anche le funzioni di ministro dell’interno) di compilare un dossier su funzionari pubblici, personalità, professori universitari e singoli individui, identificati come “antifascisti”. E che questo dossier serva per stilare future liste di proscrizione. Il ministro ubbidisce prontamente e quando richiamato all’ordine dallo stesso parlamento e dalla Corte Suprema, non trovi niente da ridire, anzi ne giustifichi l’esistenza con il solito argomento: l’imminenza della sovversione. Sillogismo: se il governo perseguita gli antifascisti, considerandoli sovversivi e nemici della patria, significa che il governo è fascista. Il dossier esiste, il ministro pure, la reazione istituzionale della democrazia rappresentativa si limita a inutili note di ripudio. Loro avanzano usando ogni mezzo, noi compiliamo e firmiamo sottoscrizioni.
Durante la sua passeggiata domenicale per la città all’incontro dei suoi sostenitori, pacche sulle spalle, abbracci, strette di mano, baci ai bambini e bava del contagio a litri, il presidente viene interpellato da un giornalista affinché spieghi l’origine di costanti bonifici bancari sul conto corrente della moglie da parte di un noto faccendiere, amico di lunga data, accusato di fungere da ponte tra le milizie e la famiglia presidenziale. “Ti spaccherei la faccia, ti riempirei la bocca di cazzotti”, risponde Bolsonaro da par suo, davanti a microfoni e telecamere. Popolo del Twitter, Guerrieri del Facebook, alle armi, alle armi! O meglio, allo smartphone! Spezzeremo le reni a Bolsonaro! Cliccate, gente, cliccate, il Palazzo d’Inverno è nostro! E così, il presidente s’è beccato in poche ore un milione di twittate; un milione di twittate che ripetevano la domanda del povero giornalista minacciato: “Perché sua moglie ha ricevuto depositi bancari di migliaia di Reais?”. Ecco la nuova rivoluzione. Il presidente minaccia la democrazia, la libertà di stampa? Il presidente vuole prendere a pugni un giornalista? Una bella cliccata non gliela toglie nessuno! Il nemico è alle porte? Il mio messaggino lo seppellirà: viva Bakunin!
Il giorno successivo, in una cerimonia organizzata nel palazzo presidenziale dal titolo “Il Brasile vince la lotta contro il Covid”, tra le montagne di cadaveri, le fosse comuni, i quasi quattro milioni di contagi, il presidente ancora una volta lancia dal pulpito, con tanto di bandiera nazionale, la sua maledizione ai giornalisti: “io, che in gioventù ero atleta, sono sopravvissuto alla malattia; se il covid attacca un bundão come voi, la possibilità di sopravvivere è molto più piccola”. Bundão è una parola intraducibile, è il classico insulto da ubriaco, da teppista di strada che vuole cominciare una litigata. Bundão. E non è la prima volta che in riunioni formali il presidente si esprime a parolacce e insulti. La sua frase, pronunciata nel contesto di una cerimonia in cui si festeggia il presunto successo della lotta contro la pandemia, ha però un preciso significato. Non è un semplice attacco ai giornalisti e alla libertà di stampa, ma è una dichiarazione di intenti, anzi, un annuncio, o meglio una confessione. Sì, Bolsonaro confessa che la sua politica di controllo della pandemia si basa su teorie eugenetiche di triste memoria, e si rivolge ai forti (“io che in gioventù ero un atleta, sono sopravvissuto”) perché i deboli, i malati, i vecchi, i non atleti, i Bundão, possono pure morire.
E il giorno dopo ecco l’ennesima nota di biasimo da parte delle autorità, dei presidenti di Camera e Senato, l’ennesima sottoscrizione di ripudio degli organi di stampa e della società civile. E intanto veniamo schedati dal ministero della giustizia, insultati e minacciati pubblicamente. La Storia insegna come dagli insulti, dalla pacchia che finisce, si passa alle minacce e dalle minacce ai fatti. La Storia la stiamo vivendo ogni giorno, tutti i giorni. E siccome non ho un account di Twitter, scrivo questo mio ennesimo articoletto incazzato, al quale una ventina di persone al massimo daranno una distratta occhiata e alla fine diranno: ma dai…