È Cicerone a ricordarci come l’immane razzìa artistica di Verre, il corrottissimo governatore della Sicilia, ispirò agli sveglissimi ragazzi di Siracusa un lavoro (certo precario, come per i loro discendenti di oggi): quello dei mistagoghi, le guide che conducevano i turisti del 70 a.C. nell’allucinante tour di un patrimonio ferito.
Se un turista di oggi volesse rendersi conto di cosa sia l’Italia potrebbe attraversare il cratere sismico nel cuore del Paese, dove sole e neve continuano a massacrare affreschi scoperti; visitare l’Aquila, con la sua cintura di borghi ancora abbandonati in macerie; sbirciare nelle chiese monumentali che a Napoli continuano a crollare, Venezia che continua a morire…
Ebbene, partiamo proprio da Venezia: simbolo vagheggiato di una possibile rinascita che del Covid facesse tesoro, riportando il popolo tra le pietre antiche e i canali. Popolo: non milionari in gita. E invece tutto il contrario: «lo scorso giugno – ha scritto Paola Somma – Invimit ha presentato una proposta progettuale preliminare, a firma dello studio di architettura di Gian Paolo e Giovanna Mar, padre e sorella dell’attuale assessore al turismo Paola Mar, per un quartiere “di edilizia residenziale priva di vincoli convenzionali”, quindi privata». Quattordici ettari di «lusso sostenibile per riqualificare Venezia» (così il sindaco Brugnaro). Nulla dunque è cambiato: a Venezia (come a Firenze) il ‘distanziamento sociale’ è una realtà dettata non dalla pandemia, ma dal dominio del mercato. Lo dimostrano tanti altri pessimi segnali: come il progetto irresponsabile di un pontile per i ‘lancioni’ (torpedoni d’acqua per il turismo di massa) installato alle Fondamenta Nuove, cioè in uno dei pochi quartieri della città dove ancora i residenti resistono. Come dire: il colpo di grazia.
Come in un’atroce sintesi, Venezia contiene ed esalta tutti i moventi delle tante ‘piccole’ distruzioni che i moderni mistagoghi dell’Italia potrebbero accompagnarci a vedere, percorrendo la Penisola da nord a sud.
Potrebbero agevolmente rendersene conto i turisti che, dalla Laguna, percorressero verso nord gli antichi domini della Serenissima, risalendo fino alle pendici delle Dolomiti e visitando così il superbo centro storico di Feltre, città romana e poi splendido principato ecclesiastico medievale. Qua il Comune ha deciso di ‘segnare’ uno dei luoghi simbolo, il Belvedere, con una modernissima tettoia che funga da terminale per ascensori turistici: un manufatto così evidentemente respingente che il progetto stesso prevede di camuffarlo con un improbabile profluvio di verde. La dinamica è quella tipica dell’‘Italia del fare’ (non importa se fare male): un’amministrazione priva di rudimenti culturali preme per la sua piccola-grande opera, la soprintendenza finisce per cedere alle pressioni (in questo caso arrivando a raccomandare che le inserzioni moderne «abbiano caratteristiche tali da evitare, o quanto meno ridurre al minimo, l’interferenza con le strutture antiche»: cioè, per favore schiacciate l’archeologia il meno possibile…) e un piccolo gruppo di cittadini che hanno a cuore il bene comune provano ad opporsi, constatando (così su questo caso Italia Nostra di Belluno) «come spesso, con la pretesa di valorizzare, si tolga al “bene” la sua essenza».
Da oriente a occidente, dalla montagna al mare: Liguria, l’incanto della terra verticale che sprofonda fino all’insenatura perfetta di Camogli, con tutta la grazia che fa unica l’Italia. Ma in questo agosto i turisti più attempati possono alternare alla spiaggia la classica panchina con vista cantiere: si sventra infatti il magnifico centro del paese, nell’area dello scalo ferroviario passata di recente al comune (grande questione nazionale, a partire a Milano), per ottenere fino a 500 posti auto interrati, senza guadagnarne neanche uno rispetto a quelli oggi possibili in superfice e devastando per sempre l’area pubblica di fronte al teatro Sociale, con la storica prospettiva tra corso Garibaldi e il palazzo del Comune. La logica è la stessa: Grandi Opere (naturalmente in scala) come unica via per lo sviluppo dell’economia locale, non importa a quale prezzo ambientale.
Scendiamo verso sud, attraversando Emilia e Toscana: un tempo esempi di buongoverno, oggi asservite alla ‘valorizzazione’ intesa come messa a reddito.
Faenza, città medioevale dal doppio cuore di Piazza del Popolo e Piazza della Libertà. Da tempo si discute del come rendere accessibile, nella prima, la grande sala dell’Arengo nel Palazzo del Podestà. Sanissimo obiettivo: che il Comune pensa però di raggiungere con un pessimo strumento, l’erezione di una oscena torre per attrezzature tecniche che dovrebbe essere giustapposta al corpo medioevale del Palazzo, compromettendo in modo insensato un monumento amatissimo. Italia Nostra ha chiesto ufficialmente al Ministero per i Beni Culturali di sottoporre questo incredibile esempio di ‘mala valorizzazione’ ai comitati congiunti per le Belle Arti e il Paesaggio: per ora invano.
La Toscana non se la cava meglio. Se esiste un simbolo della fiera coscienza del bene comune che animava le città orgogliosamente indipendenti del Medioevo, quel simbolo sono le mura, che leggi ed editti imponevano di conservare e mantenere rigorosamente pubblica. Invece, la giunta di Lucca sta per regalare a privati il Baluardo San Paolino e un tratto delle celebri mura rinascimentali della città, per costruirvi un collegamento con il parcheggio dell’ex-Manifattura Tabacchi, in via di conversione residenziale. Insomma, le mura – bene civico per eccellenza – potrebbero trasformarsi presto in parcheggio e giardino di alcuni. E qua i nostri mistagoghi potrebbero spiegare al turista che è l’idea stessa di Italia ad essere sparita: restando al suo posto solo quella speculazione edilizia che pure, si rilegga il romanzo che le dedicò Italo Calvino, è un’antica tentazione degli italiani. Sempre in Toscana, nell’incantata San Quirico d’Orcia, è il meraviglioso giardino storico degli Horti Leonini a preoccupare, perché una potatura fuori stagione e fuori regola ordinata dal Comune rischia di distruggerne per sempre i connotati: come un intervento di chirurgia plastica mal riuscito. I presidenti di numerose associazioni ambientaliste hanno scritto al ministro Franceschini, facendogli notare «che i lecci in questione sono secolari e che avrebbero meritato dunque una valutazione attenta ed analitica e quantomeno l’intervento di una ditta specializzata nel verde, anziché di un’impresa che lavora ai manti stradali», e chiedendogli di «salvare il salvabile».
Più si scende a sud, e più la situazione diventa drammatica.
Arrivati al Sud l’itinerario dello sfascio potrebbe impegnare mistagoghi e turisti in un viaggio senza fine. Ma c’è un episodio che nella sua crudezza riassume forse tuti gli altri.
A Giugliano, in Campania, il 10 luglio scorso è stata distrutta per sempre una masseria settecentesca: le ruspe hanno cancellato questo pezzo di storia per costruire 48 appartamenti con piscina. Nemmeno edilizia popolare, dunque: ma finte villette per abbienti. Lusso (in)sostenibile: come a Venezia. Ora i soliti comitati – quelli liquidati con tanto fastidio dalla politica, eppure così indispensabili perché dell’Italia rimanga qualcosa – stanno cercando di salvare almeno la vicina chiesa di San Francesco che, «sommersa dai rovi e circondata dai rifiuti, nonostante il crollo del soffitto – scrive Italia Nostra – conserva ancora la sua struttura originaria, la volta affrescata e gli stucchi, entrambi di notevole pregio. Ad oggi, tuttavia, non sussiste alcuna certezza né in merito alla sua sopravvivenza né in merito a quella delle altre testimonianze del patrimonio rurale storico che ancora insistono sul territorio: esposte alle intemperie, sono minacciate anche da scellerati interventi di “ristrutturazione edilizia” per effetto delle disposizioni dei “piani casa” regionali che permettono scempi in tutto il Paese, o di norme urbanistiche comunali noncuranti della storia dei territori».
Un filo rosso lega tutti questi scempi, attuati o minacciati che siano: ed è una malintesa idea di ‘valorizzazione’. Per mettere a reddito, per spremere, per trivellare ancora un po’ i famosi pozzi del ‘petrolio’ italiano, rischiamo seriamente di distruggerli. Per questo un viaggio del genere è davvero istruttivo: per farci capire qual è la posta in gioco, cosa rischiamo di perdere se non ricominciamo a pensare il paesaggio e il patrimonio italiani in modo sostenibile. Volevamo un mondo nuovo: proviamo a cominciare da qui.
E quando parliamo di ‘cultura’ ricordiamo che non esistono solo i Grandi Musei con i loro Grandi Influencer e i loro Grandi Incassi. Ci stiamo dimenticando che il nostro corpo collettivo vive e respira lontano dalle biglietterie museali: nelle piazze, nei piccoli borghi, sulle mura, nei giardini come quelli colpiti dai pochi esempi che ho riunito, ognuno dei quali meriterebbe una lunga analisi e una accorata denuncia. Esiste anche questo corpo martoriato dell’Italia: il nostro corpo. Da curare, da amare.
Tomaso Montanari
Articolo pubblicato in versione ridotta su “Il Fatto Quotidiano”, 15 agosto 2020
Fotografia di Luca Di Ciaccio da Flickr
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