Periferia di Torino. Un’amica insegna in un CPIA, una scuola di italiano statale per immigrati. Da sempre attenta ai bisogni altrui, volontaria ovunque possa, cattolica praticante, brava.
Nella sua parrocchia arriva per motivi di studio un giovane sacerdote: è africano, un ragazzo sorridente, di colore. Che colore? Nero, nero.
Il suo italiano non è perfetto, lei insegna italiano, lui lo sa. Le chiede di correggergli il testo di una predica.
Lei legge, come si legge un testo di un alunno, vediamo di correggere i congiuntivi, queste secondarie che non suonano bene… ma mentre corregge si accorge che quello che lui scrive “non sta né in cielo né in terra”. Parla di rapporti uomo-donna. Dell’indissolubilità del matrimonio. Lei ha vissuto un divorzio, sa cosa vuol dire. Le parole del giovane prete non vanno bene, o meglio non bastano a raccontare la fine di un amore, trascurano la sofferenza che comporta un fallimento, la fine di un sogno, di un progetto comune. Lei comincia a correggere, toglie di qua, aggiunge di là…
Restituisce il foglio. Lui ringrazia sorridente come sempre. Lei gli dice: “Ho fatto qualche piccola modifica… perché tra coloro che ti ascolteranno ci sarò anch’io e anch’io ho bisogno di una parola di speranza”. A lui sta bene, lei è una maestra, madrelingua.
Domenica: il giovane prete legge la predica e ci mette forse la stessa enfasi che avrebbe messo se avesse letto le proprie parole. Il messaggio arriva al cuore. Gli sguardi si illuminano, le sue parole emozionano.
A fine messa in diversi vanno a complimentarsi con lui, i genitori di una ragazza appena lasciata dal marito gli chiedono di andarli a trovare. Lui gioisce e pensa a lei. Grazie, pensa.
Da allora lui le fa vedere sempre la predica, lei corregge, lima, integra. A tratti compone.
I fedeli sono contenti, lui pure. Lei sorride dentro. Una porta si è aperta.