A Torino, il 21 luglio la Procura ha concluso le indagini sugli episodi di violenza nei confronti dei detenuti del carcere Giuseppe Lorusso e Lorenzo Cutugno. Il bilancio è di 25 indagati, tra i quali figurano il Direttore, Domenico Minervini, ed il capo delle guardie carcerarie, Giovanni Battista Alberotanza, rei di favoreggiamento e omissione di denuncia.
L’inchiesta, coordinata dal pm Francesco Saverio Pelosi, ebbe inizio un anno fa per un esposto del Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, in merito alle segnalazioni della Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Torino, Monica Cristina Gallo, la quale invitava a far luce su alcuni episodi di violenza avvenuti all’interno della Casa circondariale.
L’indagine, lunga e complessa, ha inizio nel 2017, quando si instilla il dubbio riguardo l’arbitrarietà di certi comportamenti assunti dai secondini nei confronti dei detenuti più vulnerabili e affetti da scompensi psichici.
La maggior parte dei maltrattamenti sarebbe avvenuta nel reparto ospitante i reclusi per violenza sessuale e pedofilia: oggetto di continue vessazioni, ricevevano insulti, derisioni ed intimidazioni a denudarsi, vedevano devastate le loro celle. Ma non è tutto. Alcuni detenuti sarebbero stati picchiati selvaggiamente e a più riprese dagli agenti penitenziari.
Tra le ipotesi di reato per i 21 poliziotti indagati lesioni e per alcuni, la tortura – mai contestato prima d’ora, soprattutto in un’inchiesta che riguardasse episodi avvenuti in un penitenziario. Sarebbe stato il Direttore, inoltre, ad eludere le investigazioni, omettendo di render noti i pestaggi e denunciando due detenuti che avevano osato esporre denuncia.
La Procura di Torino, nelle carte, descrive quanto emerso come una serie di «condotte che comportavano un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona detenuta».
Quanto riportato, purtroppo, non costituisce una novità e ci induce a riflettere sull’intero sistema carcerario e, più nello specifico, sull’abuso di potere e la legittimità della violenza, la sfera della sua attuazione.
È nel saggio di Walter Benjamin, Per la critica della violenza (contenuto in Schriften, 1955 in Italia noto come Angelus Novus, Saggi e frammenti, edito postumo, 1962) che il concetto si delinea, mostrandosi ancora, tristemente, attuale: «se il criterio stabilito dal diritto positivo per la legittimità della violenza può essere analizzato solo secondo il suo significato, la sfera della sua applicazione deve essere criticata, secondo il suo valore. […] Questo criterio può essere fornito solo dalla considerazione del diritto dal punto di vista della filosofia della storia […]. Questo ordinamento giuridico tende, in tutti i campi in cui fini di persone singole potrebbero essere perseguiti coerentemente con la violenza, a stabilire fini giuridici che possono essere realizzati in questo modo solo dal potere giuridico. Anzi, esso tende a ridurre, mediante fini giuridici, anche le ragioni dove, in linea di massima, i fini naturali vengono consentiti entro ampi limiti, se appena quei fini naturali vengono perseguiti con un grado eccessivo di violenza; come fa, per esempio, nelle leggi sui limiti della punizione educativa».
Di qui, per quanto potrà apparire paradossale, si può definire, in certe situazioni, sopruso un contegno assunto nell’esercizio di un diritto e potrà dirsi violenza quando si esercita un diritto sì competente ma che può essere usato per sovvertire l’ordinamento giuridico in virtù del quale esso è conferito che sfocia in degenerazione della violenza e costituisce, secondo il Codice penale, un vero e proprio reato e, pertanto, va sanzionato.