Gli ottimisti parlano di tre milioni di vittime, i calcoli più pessimistici arrivano a contare dieci milioni di uomini, donne, bambini schiavizzati, mutilati, assassinati brutalmente. No, non si tratta dell’Olocausto che straziò l’Europa dominata dal nazismo germanico, ma di un Olocausto ignorato, tuttora taciuto sui libri di storia. Si svolse nelle terre africane che gli europei avevano denominato Congo, ad opera dei belgi, e più precisamente per volere di quel re Leopoldo II il cui monumento troneggia nel centro di Bruxelles.
Tutto comincia con un modesto impiegato, Edmund Morel, dipendente di una compagnia di navigazione inglese. È un giovanotto di circa 25 anni quando nel 1898 viene distaccato presso gli uffici della Compagnia al porto di Anversa, in Belgio. Ovviamente interessato al traffico marittimo, comincia a notare un fatto strano: le navi belghe tornavano dal Congo cariche di merci preziose, soprattutto avorio, allora merce di lusso assai apprezzata e costosa, e di caucciù, già molto necessario alle nascenti industrie – assai promettenti – dei velocipedi e delle automobili, per le ruote dei veicoli. Quando ripartivano per l’Africa però le navi non portavano altro carico che armi e materiale militare. Il giovane Morel si domanda le ragioni di quello scambio così diseguale e comincia a indagare. Il modesto impiegato inglese non sembra un eroe destinato ad ergersi in difesa dei grandi ideali, ma quella indagine doveva diventare la sua occupazione preminente e doveva permettergli di portare alla luce uno dei più grandi disastri umani del colonialismo europeo: perché la conclusione tanto logica quanto terribile fu che quelle merci erano frutto di lavoro schiavistico.
Si tratta, come abbiamo accennato, del Congo belga. Il Belgio era il penultimo arrivato fra i paesi indipendenti d’Europa (ultima sarà l’Italia); aveva infatti conquistato la propria indipendenza nel 1830 e i cittadini belgi avevano scelto come re un principe tedesco, Leopoldo di Sassonia Coburgo Gotha, imparentato con la casa reale d’Inghilterra (era zio materno della regina Vittoria), che prese il nome di Leopoldo I. Nel 1835 era nato l’erede al trono, cui fu posto lo stesso nome. Il giovane principe Leopoldo non si dimostrava particolarmente brillante negli studi e aveva un unico grande interesse: la geografia. Appena uscito dall’adolescenza, perfettamente in tono col suo tempo, cominciò a ricercare territori coloniali su cui estendere la sovranità del suo piccolo regno. Dopo qualche tentativo fallito in Asia, si rese conto che gli unici territori su cui poteva sperare di lanciarsi erano in Africa.
I rapporti fra africani ed europei si erano limitati alle zone costiere, dove per secoli le navi avevano imbarcato soprattutto schiavi. Ma nel XIX secolo la schiavitù cominciava ad avere pessima fama, perché non più funzionale a un capitalismo in sviluppo industriale che aveva ormai bisogno di manodopera di natura diversa: la guerra negli Stati Uniti era finita nel 1865 con l’abolizione della schiavitù, e vari paesi latinoamericani scuotendosi di dosso il dominio spagnolo avevano proclamato l’indipendenza e la libertà dei popoli autoctoni. In Europa si era diffusa una tesi, accolta acriticamente, per cui il commercio di schiavi era opera di mercanti arabi, mentre gli europei andavano in Africa solo con il nobile scopo di portare la civiltà ed evangelizzare le popolazioni selvagge.
Ormai verso la fine del XIX secolo più che gli schiavi interessavano le materie prime di cui i continenti extraeuropei erano ricchi, e di cui il nascente capitalismo industriale aveva bisogno per il proprio sviluppo. Eroici esploratori si lanciarono alla scoperta dell’interno del continente africano: fra questi era diventato notissimo l’americano Henry Morton Stanley, in origine giornalista, che nel 1871 aveva ritrovato l’esploratore e missionario David Livingstone ancora vivo in un villaggio dell’interno. L’incontro con il giovane Leopoldo, diventato re nel 1865, e il grande esploratore Stanley avvenne nel 1878, e fu l’inizio di un’avventura portata avanti con grande abilità politica da parte di Leopoldo II e con grande coraggio e perseveranza da parte di Stanley.
L’esploratore aveva indicato la zone del fiume Congo come possibile territorio da esplorare: il Congo, che sfocia nell’oceano Atlantico, è lungo 4.700 chilometri, ha la larghezza massima di 126 chilometri e un bacino enorme di 3.730.500 chilometri quadrati, che è il secondo al mondo dopo quello del Rio delle Amazzoni. Il clima è tropicale e grandissime le ricchezze naturali.
Mentre Stanley risaliva il fiume affrontando enormi difficoltà, Leopoldo II si muoveva abilmente sullo scenario politico europeo e statunitense: nel 1876 organizzò una Conferenza geografica, preparata dal re personalmente presso le corti di Gran Bretagna e Germania. Vi furono invitati principi, esploratori, geografi, missionari, rappresentanti delle organizzazioni umanitarie antischiavistiche, uomini d’affari, alte gerarchie militari; tutti ospitati principescamente a Bruxelles, proclamarono la nascita di una Associazione Internazionale Africana, “per aprire alla civiltà la parte del globo dove essa non è ancora penetrata, per bucare le tenebre che ancora avvolgono interi popoli”, come disse Leopoldo nel suo discorso di benvenuto agli ospiti. Scopi dell’Associazione erano “l’apertura di strade verso l’interno e la creazione di basi scientifiche, di ospitalità e di pacificazione per abolire la tratta degli schiavi”. La schiavitù era già stata abolita con diversi accordi internazionali già dalla metà del secolo. Malgrado ciò, l’azione svolta con questa Associazione conferì al re del Belgio un’aura umanitaria che per molti anni lo favorì di fronte all’opinione pubblica sia in Europa che negli Stati Uniti; qui, promuovendo un’efficace opera di lobby, egli si assicurò la benevolenza del governo e del Congresso sotto presidenti sia repubblicani (Rutherford Hayes e Chester Arthur) che democratici (Grover Cleveland).
Una nuova Conferenza internazionale, questa volta promossa da Bismarck a Berlino nel 1878 per discutere i problemi relativi alla suddivisione dell’Africa, su cui ormai si erano appuntate le attenzioni dei maggiori paesi europei, sancì la nascita di una nuova Associazione Internazionale del Congo, su cui il re del Belgio impose il suo indiscusso predominio, facendosi riconoscere dagli ambienti diplomatici il primario interesse nella regione. La relazione con la precedente Associazione Internazionale restava nebulosa, ma Leopoldo si era ormai assicurato la fama di sovrano umanitario, giusto e pio: si trovò così praticamente padrone – a titolo di proprietà privata personale – di un territorio coloniale grande quanto Spagna, Francia, Italia, Germania e Inghilterra messe insieme, cioè settanta volte più grande del Belgio stesso.
La conquista dell’enorme territorio fu compito di Stanley, che lottò per cinque anni per esplorare il bacino del fiume. Fu aiutato dai nuovi strumenti che l’Europa aveva sviluppato: i battelli a vapore che gli permisero di risalire il fiume, almeno nelle parti navigabili, con una certa velocità e senza l’impiego di rematori; e i nuovi fucili che gli permisero di fare strage delle popolazioni locali, terrorizzate dall’incontro con quegli strani esseri. L’impresa continuava a risucchiare enormi quantità di denaro: Leopoldo II, in base a un accordo con il governo belga, non poteva chiedere denaro pubblico; si rivolse perfino al Papa per avere contributi per la cristianizzazione delle popolazioni selvagge, ma pare che non abbia avuto successo. Ne ebbe invece con alcune grandi banche e con investitori privati interessati alla costruzione di un ferrovia nel nuovo territorio da sfruttare.
Fino alla morte del re, avvenuta nel 1909, lo sfruttamento si limitò ad avorio, caucciù e legni pregiati. La raccolta e il trasporto delle merci, la produzione di viveri destinati ai coloni europei che sempre più numerosi si installavano nel Congo, nonché il lavoro necessario per la costruzione di strade e ferrovie, furono compito delle popolazioni locali. Uomini e donne venivano deportati dai loro villaggi, derubati delle loro derrate alimentari, incatenati al collo per lunghe marce dolorose, obbligati a pesanti lavori con cibo scarso e maltrattamenti, mentre i bimbi piccoli venivano semplicemente gettati via e i più grandicelli radunati in “orfanatrofi” dove, affamati e trascurati ma battezzati, la loro mortalità raggiungeva il 50%. Interi villaggi venivano rasi al suolo per creare piantagioni di caucciù, e se non venivano consegnate le quote fissate, per punizione a bambini e ragazzi venivano amputate le mani, nella migliore delle ipotesi, oppure venivano uccisi. La minima mancanza era punita con la chicotte, una frusta di pelle di ippopotamo che infieriva in maniera particolarmente feroce sulle carni dei disgraziati. È la situazione che il giovane Morel fece conoscere al mondo intero, provocando un vasto movimento di opinione contro Leopoldo II.
Alla morte del re, nel 1909, tutto il territorio divenne colonia dello Stato belga. Con il tempo, nuove esplorazioni fecero scoprire ricchezze sempre più grandi: non solo oro e diamanti ma anche petrolio e ultimamente anche le terre rare oggi indispensabili per il progresso tecnologico, come il coltan, lega di columbio e tantalio necessario per la costruzione di computer, smartphone e per l’industria aerospaziale, non esclusi gli armamenti elettromagnetici di nuova generazione. Tutte ricchezze che hanno suscitato la cupidigia dei paesi più avanzati e hanno procurato grandi tragedie alla popolazione locale.
Dopo la Seconda guerra mondiale, quando il vento dell’indipendenza cominciò a soffiare forte su tutti i paesi coloniali, anche il Congo si risvegliò e trovò il suo campione in Patrice Lumumba, capo del Movimento per l’indipendenza del Congo. Il Belgio non aveva la possibilità di opporsi e di continuare a gestire l’immenso territorio, tanto più dopo la sconfitta della Francia a Dien Bien Phu e la guerra d’Algeria, allora in pieno svolgimento; nel giugno del 1960 il Congo poté proclamare la propria indipendenza. Ma le ricchezze minerarie non potevano venir lasciate così facilmente nelle mani dei congolesi; si fecero avanti con ben altra forza gli Stati Uniti, i quali appoggiarono una secessione della parte nord-ovest del paese – cioè la zona mineraria più ricca – che si proclamò Stato indipendente sotto il governo di Moise Tshombé. Lumumba, accusato di essere comunista, venne preso e assassinato nell’ottobre dello stesso anno.
Gli anni e i decenni successivi non sono stati più clementi: il paese, sempre diviso in due fra Repubblica Democratica del Congo (capitale Kinshasa) e Repubblica del Congo (capitale Brazzaville), ha continuato ad essere sconvolto da guerre e scontri. Dai primi anni di questo secolo, il coltan ha dato luogo a una guerra, quasi totalmente ignorata dai mezzi di comunicazione italiani, che ha provocato circa due milioni di vittime. Intere popolazioni sono state allontanate dalle proprie terre e si sono disperse come profughi nel resto dell’Africa.
Se si riflette sul passato del Congo, non diverso da quello di tante altre zone d’Africa, Asia e America Latina, forse si possono capire meglio le ragioni delle attuali migrazioni epocali, che tanto spaventano l’Europa e che portano a erigere nuovi muri, negli USA come in Ungheria o in Italia con la chiusura dei porti. Non si tratta di “aiutarli a casa loro”, bensì di cessare il secolare sfruttamento che impoverisce e assassina interi popoli da interi secoli.