L’orologio segnava le undici di sera, di una serie di tre giorni di un caldo insopportabile; la settimana più calda di fine primavera mai registrata a Brooklyn. Ho sentito uno schianto nel vecchio condizionatore sulla finestra della mia camera. Era la fine del vecchio Carrier, un quadrato di acciaio e legno, probabilmente comprato negli anni 80.
Sto a Crown Heights, un quartiere di operai recentemente riqualificato, suddiviso geograficamente tra ebrei ortodossi e neri, teatro di seri conflitti etici nel recente passato. Negli ultimi anni, la zona è stata invasa da giovani bianchi e famiglie latine di classe media. Qui ho trovato un mio spazio per questo nuovo periodo, dopo un anno in Carolina del Sud. E’ un nuovo inizio: stanza singola, tipo pensione, circondato da case popolari.
Ho passato la mia infanzia nei sobborghi di Rio de Janeiro, con suoni, colori e odori simili a quelli di qualunque periferia. Si assomigliano tutte, nell’abbandono e nelle strade irregolari. Le piogge d’estate, per esempio, bagnano i marciapiedi di cemento e evaporano con la stessa velocità. C’è un senso di vicinanza, di cameratismo e proprio per questo i litigi familiari si fanno a voce alta. Sono attorniato da sguardi curiosi, ma nessun rifiuto marcato. A volte, ho la sensazione di essere osservato dalla vicina dominicana, o dal pachistano del negozio di alimentari, ma penso che è solo perché sono nuovo qui. Tutti lo siamo. Più del 40% della città non è nata qui, è immigrata da qualche posto. Per un altro 30% sono americani di prima generazione, cioè figli di immigrati.
Lì fuori, dei bambini giocano ancora con gli idranti rotti, schizzando acqua fresca e suscitando una danza intorno a loro, con la musica Hip hop e i sorrisi. In piazza le ragazze giocano a calcio e scuotono i fianchi come nei balli funk delle favelas di Rio, gruppi di africani cantano e danzano con i loro tamburi. L’aria è piena di energia e di vita. Quando arriva la sera scorgo una festa di lucciole, a migliaia, che ballano sul prato e nei giardini.
Il caldo era soffocante, e senza aria condizionata quella notte, ho provato delle alternative: un sacchetto di ghiaccio attaccato al ventilatore sembra che non funzioni. Mi rigiro nel letto e sembra che il materasso è stato riscaldato. Provo a fare tre docce, niente. Con un gesto di disperazione e la sensazione termica vicina ai quaranta gradi, infilo una federa nel sacchetto del gelo e lo abbraccio come se fosse un orsetto di peluche. Un orso polare, immagino. Mi sveglio bagnato di sudore e dell’acqua che esce dal sacchetto. Letto bagnato, tre del mattino e niente sonno.
Seduto sul letto alle cinque del mattino, intontito. A che ora apre il negozio di elettrodomestici più vicino? L’unico pensiero è di comprare urgentemente un nuovo apparecchio. Vedo dalla finestra che molti vicini hanno solo dei ventilatori alle piccole finestre. Come fanno? Ah sì, mi ricordo. Il mio primo condizionatore l’ho avuto solo a 23 anni. Prima, un vecchio ventilatore nelle calde notti carioca. Era un ventilatore enorme, con dei cerchioni che giravano e facevano un rumore .. clac..clac..clac. Non ho nostalgia delle cose brutte, ma ora dopo tanto tempo, è un ricordo divertente.
Divento sempre più sensibile alle estati roventi. Ho scoperto che esiste pure una predisposizione genetica per l’intolleranza al caldo – dev’essere questo il motivo delle mie notti in bianco in gioventù. Non riuscivo mai a dormire bene. Arrivavo a lavoro alle nove, sciogliendomi. La mia capa Déborah Meth mi guardava e già sapeva che avevo dormito poco “Solo dopo le quattro eh?” Sì. Rispondevo ansimando mentre entravo nell’aria condizionata dell’ufficio.
Ritorno alla realtà a Brooklyn. E il caldo non si placa. Decido di non dormire più, guardo le e-mail. Su Facebook, amici in vacanza sulla cordigliera delle Ande, pieno inverno nell’emisfero sud. Quasi piango. Vedo che qualcuno posta foto di Central Park in inverno, la città sommersa, imbottigliata, che impazzisce dal freddo. Tutto per convincerci che l’inverno passato era peggio. Io adoro le quattro stagioni, credo che il corpo abbia bisogno di riposo e cambiamenti di temperature. L’aria calda che esce dall’entrata del metrò, il sudore che scorre giù dalle scapole. L’estate intensa ci debilita, ci indebolisce.
Alle dieci del mattino sono riuscito a trovare un negozio e ho comprato un condizionatore mobile – non andrò mai più da nessuna parte senza. Non avevo pensato che caricarmi uno scatolone da 35 chili per quattro lunghi isolati dopo una notte insonne, non sarebbe stato un compito facile. Quando sono uscito dal negozio gocciolavo, mi scioglievo. Arrivato al mio palazzo, senza ascensore, i cinque piani mi sembravano il monte Everest, in una scalata che è durata mezz’ora.
Ho chiuso la porta, sigillato porte e finestre, ho installato il condizionatore e finalmente mi sono buttato sul letto aspettando il sonno. Piano piano l’aria nella stanza ha cominciato a rinfrescarsi e a riempirmi di felicità. Sapete quell’allegria infantile nel vedere una bolla di sapone che fluttua nell’aria? L’allegria di aprire il frigo e trovare una tavoletta di cioccolata dimenticata? Non per molto però. La suoneria del telefono me lo ha ricordato. È ora di seguire l’agenda del giorno, con vari impegni. Ora di affrontare la strada bollente. Penso, tutto contento, che quella notte potrò dormire di nuovo.
Sono qui a Brooklyn, nel luogo dove è stata inventata l’aria condizionata nel 1902, da un tale Carrier, sì! lo stesso della marca del vecchio apparecchio che si era rotto. È stato proprio qui, nella culla dell'”invenzione del secolo”, che ho scoperto finalmente che non posso vivere senza questa macchina incredibile.
Traduzione dal portoghese di Raffaella Piazza. Revisione: Silvia Nocera
** Camilo José Vergara é uno scrittore, fotografo e documentarista cileno, radicato a New York. Vergara è stato paragonato a Jacob Riis per la sua documentazione fotografica di aree povere americane e ambienti urbani in decadimento.