Ma voglio di più di quello che vedi, voglio di più di questi anni amari (Pino Daniele)
Corpi in massa di sudore deforme, in attesa di stringersi ad altri corpi sugli autobus di ogni periferia dove la parola fine non esiste, dove il ricatto del padrone e lo spettro della fame impongono il silenzio capochino: muore la mia gente. La nuova normalità di un ordine mai nuovo, ma eterno, fondatore di un nesso logico implacabile che annuncia al mondo la vera verità: niente di democratico ha il virus venuto per sterminare i poveri, niente di democratico ha la catastrofe storica che si è abbattuta sui corpi umiliati su autobus e in favelas dove la mosca e il verme vincono da sempre ogni guerra, dove anche i colori di Van Gogh vivono nel grigiore, e la tormenta di tutte le emozioni viene annullata nell’esperienza dell’oppressione quotidiana. La mia gente muore, agli ordini di un capo, che pronuncia la parola morte con la medesima banalità con cui ne pronuncerebbe qualsiasi altra. Muore la mia gente, nella negazione suprema della sua stessa morte, quando è convocata a tornare al lavoro, ai bar, ai centri commerciali, per salvare una economia che mai le è appartenuta e mai le apparterrà. Dove la voce umana si esaurisce in se stessa, dove l’urlo delle madri-mogli-figli-padri-parentitutti non vale più, dove perfino l’angoscia oggi suona falsa, muore la mia gente, corpi e corpi a migliaia ogni giorno tutti i giorni. Il tempo astratto dell’infraumano impone il suo peso sulla testa che istintivamente vorrebbe rimanere a galla ma che vive spegnendosi in un definitivo latrato. Naufragata nell’immensa periferia di fango, muore la mia gente. E chi muore è già morto nel suo amor proprio, nella sua dignità, i corpi ammassati sull’autobus che mai arriva, rispondono al ricatto senza aver più paura di niente, né delle botte, delle ferite, della febbre, dell’aria che non c’è più, delle file al pronto soccorso, dell’ospedale pieno, delle fosse comuni nella nuda terra. Chi muore è già morto ed impazzito. E a un pazzo basta chiamarlo “Maestà” perché si creda Napoleone, il papa, il Re. Ecco come muore la mia gente, rabbiosa, testarda, ferocemente sottomessa. Non sa più neppure piangere la mia gente, gli occhi viscidi come lumache, come frutti di mare rinsecchiti, non piangono più. Si muore e basta: numeri, statistiche e silenzio. E ci si abbandona, come nell’immensità di una dolce onda, a parlare di fame, di disoccupati in massa, di baracche miserabili, di stragi di massacri e carneficine, di abbandono. E quando i morti mangeranno i vivi, forse i potenti del mondo si accorgeranno della mia gente: forse.
Noi che eravamo gli imperatori della metafora, delle allegorie, i sultani di ogni iperbole di un mondo barocco costruito come volontà e rappresentazione del mito di una convivenza civica e di un patto libertario, abbiamo ora il sapore di sangue in bocca e addosso il puzzo della tragedia dell’esistenza venuta a riscuotere il suo inesorabile pedaggio di vite umane. È una infelicità totalizzante, un disastro abominevole che sembra una astrazione: la banalità del male. E in questo mondo così ricco, putrefatto dal peso del suo stesso sogno, non ci rimane che strisciare come i sopravvissuti di una ecatombe da film domenicale, strisciare in una vita di merda, sommersi dall’indifferenza delle moltitudini. Le nostre parole, annunciate come possibilità tangibile, tornano come un insopportabile avviso: “Ve lo avevo detto, ve lo avevo detto…” Ma adesso lo sappiamo, lo abbiamo imparato a legnate e colpi di sputo: la Storia non ha bisogno del passato, la Storia ce la costruiscono addosso ed ecco che l’assenza si fa presenza, come una foto in cui non ci sei, come la memoria di un’altra persona che non sei tu, che non sono io, che non è nessuno dei corpi ammassati nella stazione del metrô, come una mascherina inutile, come un virus, un verme, come la mosca che ha vinto ogni battaglia: chiusi nel terrore di noi stessi, l’essere-per-l’altro cessa di esistere. Non torneremo a casa. La casa degli uomini è stata distrutta, definitivamente distrutta.
“Non c’è neppure una mosca a Milano?”
“No, neppure una mosca. Le abbiamo ammazzate tutte. È una cosa igienica, si evitano le infezioni, le malattie.”
“Ma anche a Napoli abbiamo fatto la lotta alle mosche, anzi abbiamo fatto addirittura la guerra alle mosche”.
“E allora come mai ci sono ancora tante mosche a Napoli?”
“Eh, che volete, signore: hanno vinto le mosche!”
(Curzio Malaparte – Kaputt)