Il giradischi suona Stevie Wonder “All is fair in love”. Bevo un bicchiere gigantesco di succo di ribes mentre guardo il vinile che gira. Era l’estate del 1973, tanto caldo. Le mie cugine più grandi, Fátima e Cristina, mi accompagnavano, simulando una danza, abbracciate ai cuscini. Tutte le finestre erano aperte e il vento circolava per la casa di rua Florentina.
Il mango è originario dell’India e fu importato in Brasile dai portoghesi. Non lo sapevo quando andai ad abitare in quella enorme casa rosa, circondata di manghi. Stavamo tornando da Juiz de Fora, dove mio padre aveva lavorato qualche anno come ferroviere, e fermarci a casa della mia bisnonna, per quei mesi, era la nostra unica opzione. Con il suo aiuto, mio padre trovò in affitto una piccola casa sul retro, a Oswaldo Cruz, non molto lontano da lì, dove ho passato gli ultimi anni della mia adolescenza. Ma è lì in quella casa rosa, circondata di verde, che ritorna la mia memoria, sempre.
La casa, di colore rosa, circondata dagli alberi, dove ho passato tutti i fine settimana di buona parte della mia infanzia, dove ho visto le mie cugine diventare delle belle donne e sposarsi. La mia bisnonna Iracema aveva comprato quella casa negli anni quaranta, appena era arrivata a Rio. Insieme al suo compagno Euclides, di 22 anni più giovane, un soldato che era rimasto per anni nella base di Natal aspettando di essere imbarcato per l’Italia – ma non è mai andato in guerra – ed era il mio padrino di battesimo e la mia migliore compagnia durante l’infanzia. Sono cresciuto con le sue storie di guerre e pace, e anche con la sua frustrazione per non aver combattuto in guerra. Il suo elmetto, che si era tenuto come ricordo della caserma, era verde oliva, scolorito e molto pesante. Quasi non riuscivo a tenerlo su quando me lo metteva in testa per farmi assaporare l’immagine di essere un soldato.
Nel terreno della grande casa piantarono sei manghi e tre jambolane per ciascun lato dell’entrata, che coloravano di rosa la terra a tutte le fioriture. In fondo piantarono un frutteto, che era accessibile da una lunga scala di cemento – e dove io avevo paura di andare perché dicevano che c’era un serpente che divorava i bambini.
In tutto il terreno c’erano anche in abbondanza alberi di guava, pitanga, jambolana e jabuticaba. Un giorno ho ricevuto in regalo una tenda e allora mi accampavo davanti alla casa, giocavo con le mie macchinine in quel terreno immenso che continuava fino alla rua Florentina, dove un muro di grate nere mi proteggeva dai pericoli della vita. Il caso di Carlinhos, un sequestro di un bambino che in quegli anni aveva sconvolto il paese, faceva sì che i miei nonni raddoppiassero la sorveglianza. Stavo lì, deliziosamente chiuso in un paradiso.
Tutto è immenso nei miei ricordi, con quattro stanze, una cantina misteriosa e scura, pareti di ceramica azzurra decorata nel portico, in cui la mia immaginazione si spalancava incontro a tutte le mie fantasie di bambino. Quando torniamo nei posti da grandi, le stanze sembrano più piccole, non c’è più tutta quell’immensità. La casa della nostra infanzia era un castello.
Quello era il mio territorio, conoscevo ogni pezzetto, ogni angolo. L’orto di cipolline e prezzemolo che Iracema aveva coltivato accanto alla cucina, il portico tutto azzurro e la grande finestra della sala che stava a un passo dal divano, dove ci sedevamo per guardare il mondo. Nella stanza in fondo, un pesante armadio di mogano scuro custodiva i segreti. Era la cassaforte della casa. Solo io sapevo che i tre lucchetti erano lì solo per ingannare i curiosi. In realtà nell’armadio non c’erano soldi. Iracema chiudeva la porta, mi faceva il segno del silenzio con l’indice, spostava qualcosa dentro l’armadio e ci infilava delle buste. Era il nostro segreto. Per farmi contento, un giorno ha imbastito un “matrimonio” simbolico, con lei vestita di lenzuola. Poi mi faceva divertire suonando la fisarmonica. Era la mia “fidanzata”, mia madre e mia nonna. La donna di tutte le nostre vite.
Le mie cugine crescevano, io cominciai a interessarmi ai balli di strada, con il “soul” nella radiolina e l’anima adolescente, sesso, spiagge e carnevale. Mi allontanai anche da quella casa. Passò tutto molto in fretta. Gli anni dell’adolescenza avrebbero cambiato le nostre vite per sempre e ci avrebbero allontanato, ma a quei tempi non c’era la paura del futuro – c’era solo una voglia di non andare mai via da lì, un porto sicuro. Lei deve aver sentito molto la nostra mancanza negli anni in cui scoprivamo le strade e a poco a poco smettemmo di andare a giocare tra le jambolane. Loro erano luce e ombra. Coloravano il suolo di rosa, accanto ai fiori di altri alberi in primavera.
La domenica c’era il dolce di latte, cucinato per ore, indurito nel marmo, tagliato a cubetti irregolari e nascosto nell’armadio. La casa sempre piena di zii e cugini, il giardino sempre curato, con rose di tutti i colori. Euclides pitturava le pareti con colori pastello ogni capodanno. Rosa, azzurro chiaro, verde. Ogni stanza un colore.
Un giorno andai a trovarli e trovai la casa vuota. Iracema, a 86 anni, era mancata, e da lì in poi tutto quel nostro mondo è crollato. Ho passato anni senza più tornare – quasi tutta l’adolescenza – e qualche volta, già adulto, mi fermavo lì davanti per guardare la casa, ancora circondata da manghi e avocadi, ereditata dai miei cugini. Ancora oggi mi capita di sognare che sto al cancello aspettando che venga Iracema sorridente ad aprirmi. È il mio ricordo più dolce di quei giorni.
La casa fu venduta negli anni 90 dai miei cugini, dopo che ci lasciò anche la mia prozia Dagmar. Anche i ricordi abitano gli edifici e i frutteti della nostra vita. In quelle porte c’erano ancora i miei segni, come quell’accenno di matita sul portone, che tiene il conto di quanto stiamo crescendo. Gli edifici hanno un valore, e anche gli alberi, soprattutto perché noi un giorno ce ne andremo e loro, per la maggior parte, resteranno.
La casa di rua Florentina con i suoi manghi è sparita e l’ho scoperto quando l’ho cercata virtualmente su Google Earth, in uno dei pomeriggi di tedio della quarantena imposta dalla pandemia, quasi 40 anni dopo, mentre già abitavo a New York e pensavo di essere immune alla nostalgia. Non c’era, e le lacrime scorrevano.
Sono passato con il mouse per tutta la strada riconoscendo via via ogni casa, finché ho capito che il numero che cercavo indicava un altro edificio. Ho guardato bene la targhetta per avere conferma. La targhetta con il numero civico è l’unica cosa che è rimasta. Per ironia, l’edificio ha mantenuto lo stesso colore della casa. Il terreno e i manghi sono stati ingoiati dal cemento ed è stata la prima volta nella vita che ho sentito che una parte del mio passato è sparita per sempre.
So che è una sensazione da cui i miei bisnonni e nonni sono già passati, che molti hanno già vissuto, è una sensazione strana di perdita. La casa che torna sempre nei nostri sogni e incubi è la casa che esiste dentro di noi, quella dei ricordi più profondi. La casa di rua Florentina ci ha accolti per tre generazioni e ognuna di queste ha la sua lunga lista di lacrime e sorrisi. Delle case dei sobborghi di Rio, molte sono state ingoiate da condomini, caseggiati distrutti, memorie della città e di tutti noi, evaporate.
Guardai il portone e mi sembrava ieri che mia cugina Cristina era tornata con sua figlia Daniele per farla vedere alla mia bisnonna, piangendo di emozione. In quel portico che non c’è più Donna Iracema si sedeva il sabato pomeriggio e suonava la fisarmonica e noi correvamo in quei campi di petali per rifugiarci nelle braccia di mia madre quando apriva il cancello.
Le case della nostra infanzia custodiscono storie, sapori e odori. E l’immagine della casa di rua Florentina, il dolce sorriso di Iracema, le glorie de guerra del sodato Euclides, tutto questo resterà con me, per sempre.
Traduzione dal portoghese di Raffaella Piazza. Revisione: Silvia Nocera
* Si è scelto di mantenere alcune parole dal portoghese brasiliano, il termine rua (via) e i nomi di alcune piante che, anche se hanno una traduzione, non sono molto comuni, parole come perle di una nostalgia poetica che pervade tutto il racconto NdT.